Ebbene sì. Anche i piloni piangono, io posso dirlo. Li paragoniamo spesso alla parte più “ignorante” del rugby, in senso buono chiaramente, ma siamo ben consapevoli che  senza di loro una qualsiasi squadra di rugby non potrebbe esistere. Perchè? Semplice, chi farebbe le mischie? Chi finirebbe il cibo avanzato nei terzi tempi? Chi si presterebbe a diventare il gioco preferito dei minirugbisti? Chi lavorerebbe in club house con l’efficienza di un manager, la determinazione di un maratoneta e la disponibilità di un…pilone, per l’appunto. Già perché, almeno da mio punto di vista, nel rugby che ho giocato e amato, la prima linea era tutto questo e molto di più. Una cosa, tuttavia, mi è capitato di vedere in poche, rare, occasioni: un pilone piangere. Già perché quando si facevano male loro si infastidivano, davanti a gravi infortuni rispondevano con un sorriso e tanta determinazione, mentre davanti alle difficoltà della vita, come in campo, spingevano e le spostavano. Ciò nonostante, una volta, mi è capitato di vederne uno lacrimare, e pure tanto. Ma andiamo con calma. Era un maggio caldo e afoso di tanti, ma tanti anni fa. Al campo stavamo per giocare la penultima gara di campionato, una gara che in caso di vittoria ci avrebbe aperto le porte delle semifinali del campionato. Lentamente tutta la squadra arrivò: prima il capitano, poi le terze linee, i mediani, i piloni, i centri, l’estremo, le seconde e poi, con la solita calma, le ali. Tutto, insomma, andava come sempre, fino al momento del “discorso del capitano”. In uno spogliatoio silenzioso, umido, pieno di odore di olio canforato e di un mix di sudore e sapone grezzo, per intenderci quello con cui si lavavano le maglie di una volta, il nostro capitano si mise in mezzo al solito cerchio e ci disse: “Oggi questa gara vale doppio. Sportivamente ci può aprire la strada verso i play off promozione, umanamente, invece, è l’ultima gara del nostro Massimino – pilone di professione, silenzioso, gran giocatore di sacrificio, uno di quelli che non si vedono, ma nel momento in cui mancano se ne sente maledettamente la mancanza – per cui giochiamo anche per lui. La reazione fu quella di un gruppo: occhi lucidi, stupore generale perché nessuno aveva in effetti mai chiesto a Massimino quanto anni avesse, pacche sulle spalle e grandi sbuffi. Il piccolo stadio era gremito dal solito pubblico e, per l’occasione, dalle scuole della città che erano venute a sostenere la squadra. La partita, come tutti si aspettavano, fu dura e giocata su ritmi molto alti, nonostante il caldo e il fatto che la stagione stava volgendo al termine. Il primo tempo era finito 5 – 8 per gli ospiti, con una meta del nostro capitano, in sfondamento chiaramente, e una marcatura da parte del loro straniero, l’estremo, che poi sul finire della prima frazione aveva anche piazzato un calcio di punizione. Nella pausa, all’interno dello spogliatoio, si respirava la tensione e l’amarezza per non essere riusciti ad imporsi. L’allenatore allora provò a darci una svegliata, ma venne bloccato da Massimino che con educazione disse la sua: “Fioi, io con molti di voi gioco da oltre vent’anni. Sapete che parlo poco, quasi niente. Oggi tuttavia devo dirvi la mia e non perché è l’ultima gara della mia vita ovale. A rugby si può vincere o si può perdere, come in tutti gli sport; ma noi siamo gladiatori e anche nelle sconfitte bisogna combattere, lottare, perchè poi la sera è d’obbligo essere a posto con sé stessi. Per questo usciamo e divertiamoci, giochiamo, non pensiamo ai play off, quella è una storia che sono sicuro scriveremo, anzi scriverete; pensiamo solo ad oggi”. Poi si sedette e nell’uscita dallo spogliatoio tutti gli sguardi dei ragazzi erano cambiati. Il secondo tempo, chiaramente, andò in maniera diversa. Noi attaccammo sempre, ma loro difesero alla grande e ci impedirono di segnare, se non un calcio di punizione che Marchetto, il mediano d’apertura, trasformò nel pareggio (8 – 8). All’ottantesimo, però, l’arbitro ci diede un calcio di punizione. L’allenatore dalla panchina urlava “piazza, piazza”. Ma Gigi il mediano di mischia sapeva che ci sono occasioni in cui si deve osare e quella era una di quelle. Così in tutta fretta rubò la palla dalle mani della seconda avversaria, inseguì l’arbitro, sfuggì al capitano e giocò il pallone veloce, chiamando con sé la cavalleria pesante, la prima linea. Fintò un passaggio ai tre quarti e fece, tra lo stupore di tutti, una X con Massimino che per la prima volta si trovò palla in mano in uno spazio senza avversari. Quasi spaesato, corse. Corse veloce, il più veloce possibile. Ventidue metri che per tutti furono veloci ed esaltanti, ma per Massimino no. Lui in quei metri di corsa senza botte e placcaggi ebbe il tempo di ripercorrere tutta la propria carriera. Giocata sempre con la stessa maglia. Tra sorrisi, mischie (tantissime) e chiacchiere. Il tuffo in meta fu sgraziato e goffo, ma l’abbraccio che arrivò dopo da parte della prima linea che lo aveva seguito ripago tutto e tutti di quella piccola follia. Massimino, infatti, si rialzò lanciando la palla in alto. Guardò l’arbitro alzare il braccio. Si prestò ai suoi due amici piloni, con gli occhi gonfi di lacrime che provò  a trattenere, ma che scorrevano sulle sue guance come un fiume. Noi tutti arrivammo poco dopo, per accoglierlo e festeggiarlo in un lungo abbraccio che, almeno per me, dura ancora tutt’ora nei ricordi.

Massimino, ultima gara, 35 anni di rugby almeno, migliaia di mischie, una sola meta in carriera, così come un un solo lungo pianto. Ma uno dei pianti più intensi e belli che tutti noi ricordiamo. 

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