Ed eccoci ad un altro momento fondamentale nella vita sportiva di un rugbista: il discorso del capitano. Di solito dopo il “riscaldamento” si rientra in spogliatoio e si compiono tutta una serie di gesti/usanze apparentemente inutili o, quanto meno, strani: i più furbi indossano le maglie da gioco, altri si sistemano per apparire in ogni caso curati, c’è chi si pettina, chi riflette, chi pensa (raramente), chi se ne sta solitario in doccia appoggiato al muro…insomma una bella “dose” di comportamenti particolari. Ad un certo punto però tutto quello che, fino a quel momento è stato personale, diventa condiviso e di un’importanza tale, che tutti smettono di fare qualsiasi cosa stessero facendo: il cerchio nel quale ci si stringe e si ascolta parlare il capitano. Un rituale tipico di una squadra di rugby, a me ad esempio l’hanno “insegnato” che avevo cinque anni, al mio primo allenamento. Quando parla il capitano tutti sono in silenzio, c’è un timore reverenziale e un rispetto che aleggiano nel “cerchio”, che nemmeno davanti a Zinzan Brooke ce ne sarebbe altrettanto. Le parole che escono dalla sua bocca sono toccanti, dirette e arrivano al cuore di tutti, nessuno escluso (ali comprese), eh si perché nel rugby ci sono dei momenti in cui c’è sempre una persona che si prende tutto sulle spalle e fa scudo davanti a tutto e tutti, sia nelle vittorie che, soprattutto, nelle sconfitte. I minuti tra la fine del discorso e l’entrata in campo, sono un mix di sensazioni e adrenalina che solamente in una squadra di rugby si possono provare. C’è chi si abbraccia, chi sta in silenzio a guadare nel vuoto, chi fissa la porta nell’attesa che si apra, chi seduto si tiene la testa tra le mani, aspettando di alzarsi e entrare in campo. Ecco, per pochi minuti non ci sono distinzioni, non ci sono differenze, non ci sono incomprensioni, siamo “solo” tutti dei giocatori di rugby e ho detto tutto.