Torniamo a parlare di serie C, di quel rugby giocato per pura e sfegatata passione. Più passa il tempo e più ricordo con assoluto piacere il mio esordio in questa affascinante e fantomatica serie rugbistica. Ok a livello di gioco non sarà come giocare in Celtic League, ma a livello di spirito e agonismo non è seconda a nessuno. Ci si trovano squadre organizzate, veterani che picchiano come fabbri, ex giocatori professionisti che chiudono la carriera, magari nella città dove sono nati e giovani promesse che iniziano a farsi le ossa. Io al tempo avevo 17 anni, tanta voglia di imparare e tanta voglia di mettermi in gioco, il tutto condito da una buona dose di follia. Quella mattina, ricordo come fosse ieri, mia madre mi chiese dove stessi andando così di buon’ora, io risposi che forse mi facevano esordire in prima squadra. Lei alzo gli occhi al cielo e mi disse di stare attento, di non sporcarmi troppo e di tentare di non farmi troppo male. Io sorrisi, salii in bicicletta e sentii il suo classico commento: “Chissà poi perché il rugby, tra tante cose che potevi fare proprio il rugby!”. Sapevo che approvava la mia scelta di vita, lei da donna non sportiva mi avrebbe ostacolato solo se avessi scelto il calcio (sul momento, non capii il perché. Poi sì) e il rugby le piaceva tantissimo, anche se non aveva mai visto una partita dal vivo. Ricordo che la corsa in bicicletta verso il campo fu notevole, sfrecciai tra le strade sterrate e arrivai in “men che non si dica” davanti al portone ancora chiuso dello stadio. Ero il primo. Parcheggiata la mia vecchia bicicletta rossa, scavalcata la recinzione mi sedetti sugli “spalti” (il virgolettato è messo a proposito, perché la struttura in ferro rappresentava tutto, ma non proprio degli spalti) e iniziai ad immaginare la partita. L’aria che si respirava era primaverile, la temperatura accettabile e il cielo terso. Tutti fattori che mi ispiravano. Pochi minuti di pensieri sul rugby e l’urlo del custode mi fece ritornare alla realtà: si lamentava del fatto che avessi scavalcato, che il campo non era casa mia e via dicendo… le solite cose. Chiaramente la sua arrabbiatura passò in pochi istanti e il passo successivo fu quello di offrirmi un caffè e un goccino della sua grappa. Un rito che tutti gli esordienti avevano superato. Io in malo modo, non ho mai capito cosa fosse, ma era alcolica in un modo indefinibile (probabilmente la usava anche per muovere il suo motorino di fine ‘800, ne sono sempre stato sicuro). Mi sedetti sulla panchina fuori il piccolo bar del club e aspettai i compagni di squadra, “alla spicciolata” arrivarono tutti, dal capitano, il primo (io ero troppo piccolo per essere arrivato per primo), alle ali, le ultime e più addormentate. La preparazione fu intensa e mirata, io ero assolutamente teso e più occupato a guardare gli avversari che altro, cosa che mi frutto una navetta in solitaria, “perché bisogna pensare alla squadra non ad altro in un pre – partita” dissero giustamente. Poi l’arrivo dei primi tifosi, l’entrata in campo e quasi alla fine dell’incontro la mia entrata in campo. Di quella giornata ricordo 5 cose:

Lo sguardo fiducioso dell’allenatore che guardando la panchina mi disse: “Dai su fai una corsetta che entri, sei giovane fammi vedere un po’ di freschezza (ragionamento da approfondire, ma che in fondo ha un senso)”;

La “pacca” sulla spalla del capitano, tutto sporco di fango! Che tutt’ora rappresenta uno dei momenti più alti della mia carriera rugbistica: quello sguardo mi riempii di orgoglio personale, sapevo di non dover sbagliare nulla;

Il primo impatto in gioco, nel rugby vero, non in giovanile. A me capitò un “nano barbuto” alla Gimli del Signore Degli Anelli. Mi sorprese in una X con l’apertura e mi “stagnò” al suolo;

La corsa di “ben 22 metri” alla seconda X della partita. Dopo aver steso il nano di prima con un frontino, mi si aprì un corridoio e segnai la mia prima meta;

L’abbraccio di tutta la squadra, piloni compresi che mi sommerse una volta girato verso il campo dopo la segnatura. ero uno di loro, uno della squadra. Era una meta, niente di più, ma quella sensazione di gruppo e di approvazione me la sono portata dietro in tutte le vittorie e le mete che ho avuto la fortuna di segnare negli anni a venire.

Che dire…questa è la serie C, tanto bistrattata dai più, quanto fondamentale per il rugby! Intensa, bella e ricca di sensazioni fortissime,  perché non bisogna giocare davanti a 80.000 persone per essere “eroi” basta scendere in campo in una qualsiasi partita di rugby.