Se un alieno si affacciasse a sbirciare il 6 Nazioni e poi volesse capire qualcosa delle squadre che vede, cosa scoprirebbe? È alieno, non sa niente, neanche per sentito dire.

Verrebbe a sapere che prima le squadre erano 5 e, ancora prima, 4, scoprirebbe che dall’essere una faccenda storicamente solo anglosassone poi si è aperto anche alla Francia e, infine, ormai quasi vent’anni fa, anche all’Italia.

Sarebbe curioso di capire che rugby c’è nei vari paesi e così vedrebbe la grandezza del movimento inglese, con tradizione secolare, sport a scuola, abbondanza di praticanti, di impianti, di organizzazione, di risorse; vedrebbe il buon lavoro di Galles e Irlanda, paesi piccoli ma grandi nel rugby, la loro capacità di crescere giocatori di livello e di lavorare bene pur non avendo l’economia degli Emirati Arabi; resterebbe colpito dai progressi della Scozia che, almeno dal mondiale 2015 a questa parte, sta iniziando a raccogliere i succosi frutti di un lavoro e di una pianificazione ben fatti, di crescita e valorizzazione di talenti e di lavoro sinergico di federazione e club, anche qui senza essere proprio le Cayman; sbircerebbe in Francia e vedrebbe un campionato clamorosamente ricco, un movimento florido e pieno di campi ma si accorgerebbe che c’è qualcosa che non va da alcuni anni, perchè tutti questi stranieri nei club vogliono dire meno giocatori francesi che crescono per la Nazionale, e anche lui che è alieno lo capisce che il legame tra rugby del paese e risultati della nazionale è ineluttabile; e poi si troverebbe a buttare lo sguardo sul rugby italiano.

Guarderebbe e smetterebbe all’istante di stupirsi delle sconfitte, degli errori inaccettabili per il livello richiesto, per la mancanza di progressi in un rugby mondiale che corre e cresce e che sempre più vede l’Italia al palo. Si accorgerebbe che c’è poco da offendersi se un giornale gallese scrive che dalle due squadre più scarse d’Europa non può venire fuori una Nazionale forte. Si domanderebbe come si possa anche solo pensare che possa esistere nell’universo un allenatore in grado di cambiare le sorti del rugby di una nazione quando il sistema che gli deve mettere a disposizione i giocatori del livello necessario a competere in quella che è la categoria richiesta non funziona.

Persino lui si accorgerebbe subito che il problema non sono solo le sconfitte ma, soprattutto, il buio delle prospettive, che sempre meno si riesce a nascondere dietro a lampi di apparenze positive: anche il pubblico, alla fine, dopo strenua, ammirevole ed anche masochistica resistenza, si sta arrendendo, e non accorre più in massa allo stadio, ha imparato che può anche fischiare e se ne va prima della fine delle partite.

Scruterebbe i campionati italici e il Pro12, avrebbe riprova del bel lavoro di scozzesi, irlandesi e gallesi e smetterebbe all’istante di farsi domande su come una squadra di tier1 e con quasi 20 6N alle spalle possa non aver ancora mai passato un turno ad un mondiale e possa aver appena preso più di 60 punti in casa. Vedrebbe il budget annuale con cui la federazione autoctona non fa progressi e non ottiene risultati e lo rilegerebbe altre cinque o sei volte convinto di aver visto male gli zeri.

Se poi si andasse anche a vedere i risultati delle nazionali U20, che persino lui capirebbe essere la porta e il serbatoio delle maggiori, e come i ragazzi vengono scelti e cresciuti, chiuderebbe il portellone del suo disco volante soddisfatto del quadro che si è fatto e pieno di semplicissime domande da porre al rugby italico, per cercare, probabilmente inutilmente, di capire come un patrimonio di passione e potenzialità, di tanti esempi virtuosi ma ignorati e di un’immagine forte che rasenta quasi l’inspiegabile, possa essere gestito tanto male da aver dilapidato quasi vent’anni di possibilità.

E, poi, riaprirebbe il portellone ad Edimburgo, dopo un salto all’indietro nel tempo di una settimana, e si accomoderebbe allo stadio a vedere Scozia-Irlanda del 4 febbraio. Non prima, però, di essere passato un attimo da casa di Conor O’Shea per abbracciarlo forte e dirgli che doveva firmare con l’inchiostro simpatico.

Emy Forlani