Di Lorenzo Cirri

Prima che possiate pensare che sono impazzito, vi dico subito che questo titolo è una deliberata provocazione. Un inverso letterario.
A volte durante i miei spostamenti mi vengono in mente cose strane, pensieri, immagini, sprazzi di un vissuto che ormai affonda le sue radici nel tempo. Mi piace viaggiare, soprattutto in treno. Mi permette di conoscere un sacco di gente, ma anche di prendermi il tempo per pensare con un po’ di calma a tante cose. Proprio questa mattina mentre dai finestrini sfilavano sonnacchiosi gli splendidi paesaggi dell’Appennino Tosco-Emiliano, mi sono fermato per qualche minuto e mi sono messo a fare una delle cose che amo di più: viaggiare indietro nel tempo.
Dodici anni, già così tanti ne sono passati dal primo allenamento fatto ad una decina di volenterose ragazze che stavano su quel campo fangoso più per amore dei fidanzati che per una vera e propria passione per l’ovale. Da quel giorno per me sono cambiate tante cose e adesso sono davvero felice di andare su e giù per l’Italia per continuare a lavorare con le ragazze sui campi da rugby.
Mi sono chiesto, però, perchè tra le tante cose che sono cambiate in questi anni ce n’è una che invece stenta ancora a farlo, ovvero la considerazione che molti rugbisti (e non parlo di uomini “normali” ma di giocatori fatti e finiti con tanto di valori, retorica ovale e amore folle per questo gioco) continuano a non avere per il gioco delle ragazze.
Mi sono ricordato di aver chiesto in questi anni un po’ di pareri in merito, ad alcuni compagni di squadra ed a tanti altri “uomini ovali” in giro per il paese, attraverso Facebook o qualche altro forum. Mi sono scritto quasi tutte le risposte e questa mattina ho voluto provare a rimetterle insieme per vedere se si riesce forse ad avere un quadro un po’ più completo della questione, capire no, quello davvero non mi riesce.
Sulla mia pagina Facebook arrivano tanti messaggi di rugbisti maschi, che si sono avvicinati, incuriositi, spesso appassionati al gioco delle ragazze. Quasi sempre apprezzano il loro entusiasmo e la loro dedizione. Ne arrivano però anche tanti altri che mi chiedono come possa piacermi quello che per loro è “un rugby che non è rugby”.
Non citerò nessun nome, in fondo è giusto che ognuno abbia le proprie idee e mantenga la propria privacy, riporterò solo qualche commento, giusto per farvi capire che in Italia sono ancora in tanti a meravigliarsi, interrogarsi o sdegnarsi del fatto che le ragazze giochino.
Uno dei commenti più classici è: “il rugby femminile fa schifo!”, mentre l’argomentazione a discredito più gettonata dai rugbisti maschi è questa: “il rugby femminile non è bello da vedere, perchè le donne non sono forti come gli uomini ed il gioco è molto meno sviluppato”, per qualcuno è addirittura “una questione genetica, poichè le donne non hanno un fisico adatto a questo sport”, quello che mi fa ridere di più è invece: “le donne che giocano a rugby sono brutte”, senza voler deliberatamente citare quelli di natura sessuale.
Ci sono poi quelli che invece le partite le seguono, o si sforzano di dar credito alle ragazze sostanzialmente per poterci uscire assieme, considerando il gioco delle ragazze un “male minore” se poi in cambio si può raccattare qualcosa, come se le ragazze cominciassero a giocare solo per potersi avvicinare ai ragazzi che giocano.
Come al solito le azzurre fanno da traino al movimento ed assistere alle loro partite è sempre uno spettacolo, non solo per quello che si vede in campo, ma anche perchè il pubblico è solitamente (uomini e donne) appassionato e caloroso, si conoscono quasi sempre i nomi delle giocatrici e si sentono tanti apprezzamenti per il gioco o per la grinta ed i placcaggi, ma se vi trovate una domenica qualsiasi ad assistere ad un concentramento di Coppa Italia (e personalmente ne ho vissuti tanti da allenatore) le cose sono ben diverse. Ad assistere oltre a genitori ed amici delle giocatrici ci sono quasi sempre appertenenti alla società organizzatrice e/o giocatori di varie fasce d’età ed i commenti sciocchi si sprecano. Ho sentito dire di tutto mentre incitavo le ragazze a dare il massimo sul campo, dai commenti sul trucco, sulle unghie, sulle gambe o peggio. Quasi mai un apprezzamento tecnico per una giocata, un placcaggio o un bel gesto individuale. E’ questo che a parer mio denota che il solco tra questi due mondi è ancora molto ampio.
E così mentre il tempo scappa via e la stazione di casa mi aspetta per riportarmi nel mondo vero, quello fatto di lavoro e di mille altri problemi, mi tornano in mente le parole rivolte dal grande Marco Paolini ad un giocatore qualche tempo fa parlando di rugby femminile:
“Tu giochi a rugby… e lo fai perchè ti piace. Allora, prova a pensare una cosa, prova a pensare che piace anche a lei, e forse riuscirai finalmente a capire perchè lo fa!”. Io l’ho capito una sera di settembre, dodici anni fa.