Nisida è un’isola. O forse no.

Lo era certamente ai tempi dell’antica Roma, quando, gemma incastonata nel Golfo di Napoli, ospitava le ville sfarzose di senatori e proprietari terrieri.

Lo era ancora nel XIV secolo, quando, sotto il regno della Regina Giovanna I d’Angiò, venne edificato un imponente castello, restaurato e riadattato a fortezza un paio di secoli dopo grazie al viceré Don Pedro de Toledo.

Nel 1934 venne costruito un lungo ponte per unirla alla terraferma. Da allora Nisida non è più un’isola. O forse lo è ancora.

La fortezza nel frattempo è diventata un carcere. Minorile. Uno dei pochi in Italia.

La nostra storia parte da qui, dalle mura di questo carcere. La dura vita dei ragazzi rinchiusi qui ha trovato, dalla fine del 2005, una nuova forma di aggregazione. Una sfida: provare a educare alla disciplina del rugby chi ha infranto le regole.

Un progetto sostenuto dall’amministrazione penitenziaria, gestito dall’Amatori Napoli Rugby con il sostegno della Federazione Italiana Rugby: tra i protagonisti dell’iniziativa Rodolfo Antonelli, classe 1970, una carriera ovale trentennale prima da giocatore (Cus Napoli, Partenope, Arzano, Amatori Napoli), ora da consigliere e allenatore dell’Amatori Napoli. Una passione per i ragazzi e tante vittorie, non solo sul prato verde, ma anche nel sociale. L’ultima in ordine di tempo la gestione del campo sportivo che si trova nella ex base Nato a Bagnoli: uno spazio in più da offrire al rugby giovanile.

 

Con Rodolfo vorrei concentrarmi sull’esperienza di Nisida, anche in vista di un importante evento che si svolgerà il prossimo 19 giugno e di cui parleremo diffusamente alla fine dell’articolo.

 

A chi e come è venuta l’idea di introdurre il rugby nel carcere di Nisida?

Nel 2005 iniziammo, partendo da un’intuizione favolosa di Enzo Iorio e grazie a un uomo illuminato come il Direttore Gianluca Guida, il nostro percorso all’interno dell’Istituto Penitenziario Minorile di Nisida.

 

Quali sono state le difficoltà principali nel relazionarvi con gli ospiti del carcere?

Difficoltà reali? Nessuna. Personalmente ogni volta che entro faccio tabula rasa: domando solo da dove vengono e null’altro. Il resto creerebbe un preconcetto o una sovrastruttura tale da frapporre un velo tra me e loro: io voglio solo allenarli al rugby e trasmettere loro quello che il rugby ha insegnato a me. Null’altro.

 

Quanti ragazzi siete riusciti a far appassionare all’ovale e con quali risultati?

Generalmente una quindicina per ogni anno sportivo di attività svolta. Dal punto di vista tecnico, considerato il numero esiguo di allenamenti e gli spazi ridotti, i risultati sono eccellenti. I ragazzi ospiti del penitenziario sono particolarmente portati per il rugby. Sono svegli, rapidi, veloci, forti. Se da noi opportunamente motivati riescono ad avere risultati davvero notevoli.

Dal punto di vista umano sappiamo che alcuni di loro, grazie al lavoro dell’amministrazione penitenziaria, alle attività svolte e grazie anche al rugby, hanno realizzato il loro recupero sociale. Diciamo che sono circa dieci.

 

Come si svolge l’allenamento e l’attività in generale?

Gli allenamenti sono settimanali e si svolgono all’interno delle mura dell’istituto. Alcune volte ci alleniamo sul campetto esterno ma situato sempre sull’isola. Ci sono 4-5 atleti della seniores dell’Amatori Napoli, coordinati da Enzo Iorio, che dopo la fase di riscaldamento passano a quella tecnica e alla partitella finale (ineludibile); i ragazzi cercano sempre il contatto fisico e la partitella è fondamentale.

A fine anno sportivo organizziamo un evento, al di fuori dell’istituto, per finalizzare gli allenamenti. Facciamo disputare loro un torneo di rugby a 7 o rugby a 10, che coinvolge tutta la nostra società, squadre giovanili comprese, e anche gli Old Napoli Rugby. Per loro deve essere, però, anche una festa, invitiamo quindi le famiglie degli atleti ed altre squadre giovanili. Alla fine vivono anche il “TERZO TEMPO”.

 

Ritieni che per questi ragazzi il rugby abbia un valore educativo e formativo superiore a quello di altri sport?

Assolutamente. Rispetto per le regole, rispetto per l’arbitro, per l’avversario, per chi li guarda giocare: sono cose che loro recepiscono immediatamente. Noi poi insistiamo particolarmente sul sostegno. Dopo 4-5 allenamenti capita, non di rado, che chiedano il testo del regolamento per “studiarselo”. Non so se è chiaro, perché a me non lo fu subito, il REGOLAMENTO. Un ragazzo che arriva a Nisida, le regole le ha “superate” già da tempo.

 

A che punto è oggi la vostra attività con i ragazzi di Nisida?

Il nostro lavoro è andato avanti fino alla scorsa stagione senza interruzioni, con buoni risultati tecnici e riscontri umani davvero considerevoli. Per la prossima stagione vogliamo riprendere l’attività all’interno dell’Istituto.

 

 

La storia non finisce qui. Anzi comincia, ancora una volta, da qui. È la storia raccontata da chi, con coraggio e abnegazione, ha chiesto e ottenuto di aprire i pesanti cancelli delle carceri per capire come il rugby possa essere strumento di aggregazione e di emancipazione, di riscatto e di speranza.

Una storia che ha inizio il 6 settembre 2013, quando Antonio Falda, scrittore con la passione per il rugby, varca il cancello del penitenziario minorile di Nisida. Ad accompagnarlo è proprio Rodolfo Antonelli.

L’obiettivo: raccontare il rugby vissuto e giocato dai detenuti. Quella di Nisida è la prima tappa di un lungo viaggio che porterà Antonio in giro per le carceri italiane. Ad ascoltare storie sempre diverse tra loro ma aggregate da un comune denominatore di forma ovale.

Quei racconti sono diventati un libro dal titolo “Per la libertà – Il rugby dietro le sbarre”, edito da Absolutely Free.

La storia comincia da Nisida. E passa di nuovo da Nisida. Proprio a Nisida, infatti, Antonio Falda presenterà il suo libro il prossimo venerdì 19 giugno alle 17.30 (Centro Europeo di Studi sulla devianza minorile – Istituto Penitenziario Minorile di Nisida – via Nisida, 59).

A fargli compagnia, il giornalista e scrittore Flavio Pagano. Rodolfo Antonelli e altri ragazzi che hanno seguito i giovani detenuti del penitenziario porteranno la propria testimonianza. Per raccontare il rugby tra terra e mare, tra carcere e libertà.

 

Andrea Pelliccia

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