Penso sia del tutto normale che, a pochi giorni dall’inizio della Coppa del Mondo di rugby, il pensiero ripercorra le varie tappe dell’esperienza ovale e i ricordi se ne vadano agli inizi; poi, diciamocelo, tutti questi video di ex atleti che hanno fatto la storia del rugby mondiale, da Jonny Wilkinson, a Keith Wood, a Jonah Lomu, fino a John Eales e Tana Umaga (e in questo periodo l’organizzazione della Rugby World Cup ne sta facendo girare un bel po’ a livello promozionale, giustamente), oltre a farci sentire tremendamente anziani, figli di un altro rugby, ci fanno anche – almeno a me – ritornare indietro negli anni e pensare a quanto bello era rincorrere un pallone in giovanile. Perché dico giovanile? Semplice, perché è stato in quei momenti in cui ho vissuto il rugby in maniera totale, diciamo dai 16 ai 18 anni. Il tempo in quel periodo non era sancito dalle ore di studio, che tuttavia accompagnavano le giornate, ma dagli allenamenti e dalle partite a rugby con gli amici. Era un continuo sfidarsi a chi segnava più mete, faceva più placcaggi, marcava la segnatura più spettacolare. Anni senza pensieri, o meglio con l’ovale fisso in testa. Per non parlare, poi, delle discussioni post allenamento/partita sul rugby vero, quello dei grandi, quello dei miti di allora. Una volta rientrando in bicicletta dal campo da gioco, parlando di rugby ci incrociammo con gli amici calciatori e così tra una chiacchiera e l’altra arrivammo al fantomatico “a chi ti ispiri?” e tutti a dire Baggio, Maradona, Del Piero, Lomu, Wilkinson, Wood, fino a che non arrivò il mio turno: “io vorrei essere come Ivan” e tutti “Ivan chi?” e io: “Ivan Francescato”. Perché? Semplice, mi piaceva il suo talento, il carisma, la semplicità con cui riusciva a fare tutto. Ancora oggi il signor Ivan Francescato per me rappresenta il Rugby. Così sedici anni dopo c’è ancora quel senso di grande vuoto, quasi a non voler ammettere che Ivan se n’è andato sul serio. Perché un mito come lui vive ancora nei racconti, nei ricordi di chi ha avuto il piacere e la fortuna di conoscerlo e nelle gesta sportive a cui il suo talento ci aveva abituato. Io al suo funerale c’ero, al tempo ero un bambino, ma da rugbista mi parve giusto partecipare anche solo con la presenza. Presi due autobus e un treno, ma riuscii ad arrivarci. Era il mio idolo, quello a cui mi ispiravo come giocatore e, grazie ai racconti di chi l’aveva conosciuto sul serio, come uomo. Come sportivo poi la sua meta di Grenoble rappresenta una delle espressioni più alte del rugby italiano, forse la più alta in assoluto e mi fa venire la pelle d’oca tutte le volte che la riguardo. Che dire il 19 gennaio per me è una giornata triste, come lo sono state tutte le successive con Ivan fuori dal mondo del rugby. Per fortuna però ci sono i ricordi e il mio “vorrei essere come Ivan” me lo porterò dentro per tutta la vita.

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