C’è una cosa che non ti dicono, quando vieni al mondo. Oddio, ce ne sono parecchie, all’inizio per forza di cose ci sono solamente i primi rudimenti. Quando cominci ad imperversare per il mondo da solo, sulle tue gambe, ti rendi conto di cosa sia, e come sia, la tua pelle: morbida e rosea all’inizio, fragile quando cadi e ti sbucci ginocchia, gomiti e qualsiasi cosa sbucciabile, dura, rugosa, oppure morbida, dipende da come decidi di muoverti. Se ti trovi vicino qualcuno di bravo o qualche lupo di mare della vita buona parte di queste cose le vieni a sapere. Ma una cosa la scopri da solo: la pelle sa essere adesiva. Più di tanti collanti. Sa tenere attaccati a sé sensazioni, profumi, esperienze, cicatrici. Non te ne stacchi così facilmente, da tutto questo, e neanche dalla tua pelle. Più dai il giro, più decidi di farle cambiare aria e più questa si incolla tutto quello che la circonda. Chi ha viaggiato un minimo lo sa, e questa è la storia di quanto il rugby, se opportunamente conservato sotto pelle, sappia aderire alla pelle di chi ci ha giocato, ovunque si vada, qualsiasi cosa possa succedere. È la storia di chi decide di cambiare aria, e questa aria decide di ripresentarsi sotto forma di palla ovale. Per poco eh, ma nel 1999 arriva la prima brezza, a Genova e dintorni. Segue un ventiseienne appena laureatosi in Legge, si chiama Marco Rivaro ed è il protagonista della nostra storia. Marco decide di cambiare aria dopo la laurea, si trasferisce in Inghilterra, a Westminster prima e allo Hugues Hall College poi. Missione postlaurea. Marco è bravo, si impegna, ma Genova manca. Ecco, non proprio Genova. Il Cus Genova, squadra di rugby a base universitaria della città ligure. Il ventiseienne è un discreto centro, ha presenze con le Nazionali giovanili. Nel 1991, a 18 anni, è nella selezione under 19 che batte la Nazionale inglese di categoria a domicilio. È una grande vittoria, considerando che in terza linea, per quelli in maglia bianca, gioca il figlio di Vincenzo, torinese con sangue emiliano, emigrato a Londra nel 1958. Che voi direte “E chi se ne frega”. Sì, ma se di cognome il signor Vincenzo fa Dallaglio capirete che siamo davanti ad una delle leggende del rugby contemporaneo. Ecco, Marco fa parte di quella Nazionale. Prima e dopo il 1991 una carriera nel Cus Genova, lontano dai fasti di Marco Bollesan, ma pur sempre in serie B. Una parentesi a Pavia, città nella quale svolge il praticantato, ma non è ancora tempo di carriera, si va oltre Manica. Manca La Sciorba però, il campo storico del rugby genovese. Manca anche il Carlini, che nel 2001 tra l’altro sarà adibito ad ospitare i manifestanti No Global durante il vertice del G8. Eccola là, la pelle adesiva. La palla ovale fa sentire la sua mancanza, e allora Marco passa all’azione nel modo più diretto possibile: si arma dell’elenco telefonico, che in Inghilterra ha le pagine gialle, e comincia a chiamare tutti i numeri telefonici il cui nominativo termina con “Rugby Club”. Tutti, a partire dai Saracens. No, non ridete. Il fatto che un ragazzo abituato alla serie B italiana chiami i Saracens non è del tutto fuori dal mondo, se si considera che tutte le squadre della Premiership hanno una seconda squadra nelle leghe minori. Coi Saracens va male, non lasciano nemmeno finire la conversazione. Va meglio con London Irish e Harlequins, che accettano. Marco sceglie gli Exiles, gli fanno un contratto part-time con il quale entra nella squadra riserve e si guadagna il suo spazio. Tutto normale, fin qui. Solo che siamo nel 1999 poche miglia più in là dello Stoop (il rugby entrerà al Madejski Stadium dalla stagione successiva) è in corso la Coppa del Mondo e metà squadra sta giocando col Trifoglio sul petto (compreso un certo Conor O’Shea), e allora Rivaro debutta in Premiership. Gioca per tutto il mese di ottobre, è uno dei protagonisti della netta vittoria sul Newcastle. Il 56 a 8 finale, in diretta televisiva, non fa rumore solamente al di là della Manica. Dall’altra parte dello schermo c’è anche un omone risoluto, impegnato come commissario tecnico alla Coppa del Mondo. Il fisico e la fierezza rivelano un passato da pilone in maglia nera, più precisamente quella con la felce argentata sul cuore. Le sue Fiji hanno praticamente scherzato al debutto con la Namibia, solo che alla Coppa del Mondo è arrivato con le valigie, dal 2000 Brad Johnstone sarà il nuovo commissario tecnico italiano, anche se in pochi ancora lo sanno. Johnstone si prende avanti col lavoro e chiede lumi su quell’italiano non di primissimo pelo di scena lì in Inghilterra. Non è un fenomeno che cambia gli equilibri, parliamoci chiaro, ma è solido nel placcaggio e per uno abituato a dire che “Il rugby finisce col numero 8” un centro del genere va benissimo. Marco Rivaro riceve la chiamata della Federazione il primo gennaio del 2000. Convocato per il primo Sei Nazioni azzurro. Finisse qui sarebbe già una discreta favola. Ma non finisce qui.

Johnstone lo fa debuttare il 5 febbraio contro la Scozia. Entra dalla panchina al posto di Luca Martin mentre Diego Dominguez sta facendo di tutto agli scozzesi, che sono sotto e non riescono ad uscire dalla lavatrice. Eh, non è un bel momento per loro: sono arrivati a Roma come ultimi campioni del 5 Nazioni e consideravano il viaggio a Roma come una gita di piacere. Invece sono lì a vedere Logan che sbaglia un calcio dietro l’altro, la mischia che retrocede e Glenn Metcalfe, biondo estremo originario di Auckland, che cerca più volte il varco. Davanti si trova tre volte Marco Rivaro, che non è proprio lì fermo ad aspettare. Accorcia e lo prende tre volte su tre: Una volta riesce a tenere la palla, le altre due le perde a contatto. I placcaggi del genovese li sentono in tribuna per la violenza del contatto a terra. Johnstone gongola. Sia per la vittoria, inaspettata, sia per la scommessa vinta con quel genovese. La gloria in quel 6 Nazioni per noi è effimera, lo sappiamo già. Rivaro debutta da titolare contro il Galles, poi entra dalla panchina contro l’Irlanda, ma i nostri avversari ci hanno studiato. E ci fanno malissimo. Marco torna in Inghilterra, a fine stagione passa ai Bedford Blues e si iscrive allo Hugues Hall College. Giocherà ancora una volta in Nazionale, contro l’Inghilterra nel 2001, entrerà a match già largamente chiuso. Bello Twickenham. Bello proprio. Marco lo sa, ci ha già giocato, e non solo in Premiership. Già, perché lo Hugues Hall, college fondato nel 1885, è uno dei pilastri della Cambridge University. E se Tony Rodgers, coach della squadra da 21 anni, viene e ti chiede se sei libero a dicembre capisci subito che puoi giocartela per un posto al sole nel Varsity Match. Non sarà il rugby professionistico, ma ti giochi un match vitale a Twickenham davanti a 60000 spettatori, tutti di una certa borghesia londinese. Marco ne gioca due, entrambi persi, ma nel secondo viene eletto Man of the Match e, per questo motivo, ritratto sui quotidiani del giorno dopo. La sua carriera prosegue ancora per poco nelle serie minori inglesi. Ogni tanto una speranza di convocazione in azzurro c’è sempre, ma Kirwan, che intanto ha sostituito Johnstone, proprio non lo vede. Abbandonerà il rugby giocato di lì a poco, non prima di aver terminato la carriera dove palla ovale e maglia biancorossa del Cus Genova gli si erano tatuate addosso.

Il lavoro lo porterà lontano, tra Stati Uniti e Italia.

La pelle se la porta sempre con sé. Adesiva come non mai, sempre pronta ad appiccicare su di sé momenti, storie emozioni. Twickenham, i biondi capelli di Metcalfe al vento. Il bianco e il rosso. L’azzurro. Più di tanti collanti. Sa tenere attaccati a sé sensazioni, profumi, colori, esperienze, cicatrici. Non te ne stacchi così facilmente, da tutto questo, e neanche dalla tua pelle. Più dai il giro, più decidi di farle cambiare aria e più questa si incolla tutto quello che la circonda.

Chi ha viaggiato un minimo lo sa.

Marco lo sa.

E credo ne vada fiero.