Ho avuto il piacere di incontrare Antonio Falda, l’autore del libro “Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre” (Absolutely Free editore, € 14).  Ci siamo visti a Roma, durante una sua visita al ministero di grazia e giustizia per parlare del libro e abbiamo approfittato del tempo a nostra disposizione per parlare del libro. Ovviamente l’intervista è stata fatta in una club house, per non allontanarci troppo dalla nostra passione comune per il rugby.

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Il libro di Antonio mi ha subito colpito, perchè ha affrontato un tema delicato come il progetto rugby negli istituti di pena senza cadere nei soliti clichè e senza nulla di scontato. Quindi, un testo da leggere, senza se e senza ma.

V: Come nasce il progetto di “Per la Libertà”?

A: A me piace utilizzare il rugby per raccontare delle storie. Il progetto di questo libro nasce ancora prima di “Franco come il Rugby”, perché è un argomento molto coinvolgente, dovevo solo trovare il momento giusto per svilupparlo. Tutto è poi nato il giorno prima della presentazione del mio precedente libro a Napoli, quando ho incontrato il direttore del carcere di Nisida.

Perchè affrontare il tema del rugby nelle carceri?

Noi tutti sappiamo l’importanza delle regole di questo sport e di come il rugby sia basato su delle regole precise. Quindi mi sono chiesto quanto tutto ciò potesse incidere sulle persone che le regole le hanno smarrite. In più, ho pensato alle persone che partecipano a questo progetto. Perché mai una persona che quotidianamente lavora, che tre sere a settimana allena una squadra, rinuncia al Sabato, unico giorno libero, per andare a insegnare il rugby a dei detenuti? E cosa riporta a casa quando esce dal carcere dopo questa esperienza?

Immagino tu avessi una tua idea di sviluppo iniziale per questo libro, fatta di incontri nei vari istituti e di testimonianze. Come si è sviluppata poi? Mantenendo la linea iniziale o modificandosi?

Normalmente, quando inizio, non so bene come va a finire (ride n.d.a.). Ovviamente non è stato semplice, inizialmente, soprattutto per avere i permessi per l’accesso nelle carceri. Ho inviato ai vari istituti che volevo visitare una mail standard, dove c’erano tutte le mie informazioni personali, i motivi per cui chiedevo l’accesso e, soprattutto, la possibilità di poter registrare le conversazioni.

Cosa racconti in questo libro?

Credo sia importante raccontare se stessi. Il libro racconta il mio viaggio e i miei stati d’animo insieme a coloro a che hanno viaggiato con me. Non è una cosa scontata entrare in un carcere, non c’ero mai stato prima e le sensazioni che si provano sono davvero tante. I miei compagni di viaggio non sono solo i detenuti, ci sono anche gli educatori, gli operatori, i direttori e  le guardie carcerarie. A tutti loro ho chiesto quanto possa essere utile avere un’attività di una certa qualità all’interno di un istituto di pena, sia per chi la riceve sia per chi la offre.

Cosa hai provato la prima volta che sei entrato in un carcere?

La prima volta è stato a Nisida, ma il primo impatto non è stato particolare. Il groppo alla gola lo ho avuto nella tappa successiva, a Terni. Ero con questi ragazzi nella sala cinema dell’istituto. Abbiamo cominciato a parlare, ero in piedi davanti a loro. Alla fine della conversazione ero seduto in mezzo a loro, a chiacchierare, come si fa tra amici. Con alcuni di loro, alla fine, ci siamo salutati come ci si saluta tra amici, con un abbraccio. Per uscire dalla sala c’è una sola porta, che abbiamo attraversato insieme e ho seguito la guardia carceraria che mi guidava, girando a sinistra. Poco dopo, attraversando il corridoio ho sentito il bisogno di girarmi e mi sono reso conto che i ragazzi con cui avevo parlato avevano girato a destra e mi stavano salutando mentre le sbarre si chiudevano. Eravamo nello stesso corridoio eppure io avevo girato a sinistra, verso la libertà, mentre loro rimanevano dentro, costretti dalle sbarre.

Mettendo da parte, per un momento, il discorso relativo i valori; il rugby e il carcere, se vogliamo, possono essere incredibilmente lontani o altrettanto vicini. Di certo in comune hanno la capacità di dare emozioni contrastanti e molto forti. Come hai vissuto questo connubio e come lo vivono i vari protagonisti?

Una cosa che noti dentro un carcere è che ci sono dei piccoli gruppi, dei clan. Il rugby, in questo caso, ma più di altri sport, li rende unici. Riesce a unire persone diverse tra loro, superando le difficoltà iniziali. Già questo è un successo. Quando sono stato nel carcere di Torino, ho passato l’intera giornata nell’istituto.  Durante la partita, un ragazzo della squadra del carcere era completamente solo e stava per segnare una meta, ma ha deciso di passare la palla a un compagno che ha poi segnato. Il presidente de La Drola (la squadra del carcere n.d.a.) mi ha fatto notare come in un luogo come il carcere, dove l’egoismo regna sovrano e l’amor proprio vince su tutto, il ragazzo abbia passato la palla. Un detenuto ha rinunciato a segnare la meta per farlo fare a un compagno: un successo.

 Il rugby ha sempre avuto un aspetto sociale. Ultimamente però ho l’impressione che questo aspetto stia diminuendo o che si sia distaccato dalla parte sportiva. Cosa ne pensi? Credi che questo progetto possa riunire queste due anime dello stesso sport?

Provo a risponderti con un esempio: la società ASR Milano, svolge il lavoro delle carceri. Oltre a dei responsabili fissi che operano nell’istituto, tutti i tecnici delle varie categorie, a turno, partecipano agli allenamenti nel penitenziario. Perché il progetto di rugby delle carceri è qualcosa che fa parte della società sportiva. Quindi l’aspetto sociale è un qualcosa che fa e deve far parte di una società e non semplicemente l’atto di volontariato da parte di qualcuno. Di certo se tutti agissero in questa maniera le cose andrebbero meglio, considerato che ultimamente le società hanno difficoltà a curare l’aspetto sociale interno.

Prima hai parlato anche dei volontari. Come è stata la loro esperienza? Totalmente positiva o c’è stata qualche problematica?

Per rispondere ti porto la testimonianza di Alessio “Bimbo” Battisti (il ragazzo sulla copertina del libro n.d.a.). Lui ormai ha smesso di giocare e non lo rimpiange più. Il passato è passato. Però lui, il sabato, va a insegnare il rugby in carcere. Più volte gli amici gli hanno detto “ che ci vai a fare”; “ci spendi pure i soldi sopra” ecc. Beh, lui mi ha detto che quando è lì, a fare rugby, si sente davvero bene e la sensazione è che siano loro a dare qualcosa a lui e non viceversa.  La gratificazione morale è massima. A Terni, il rugby faceva parte di un progetto finanziato dalla regione insieme ad altre attività. Terminati i fondi, le attività sono tutte finite, tranne il rugby, perché i volontari ci vanno comunque.

Quanto è importante per un detenuto avere la possibilità di giocare a rugby?

E’ fondamentale. La cosa più importante è aver dato un obiettivo a queste persone. Al di là dell’ora d’aria in più chi partecipa al progetto a qualcosa a cui pensare durante la settimana. Ad esempio, a Torino, il direttore del carcere ha messo i detenuti che fanno parte della squadra nello stesso padiglione per farli stare insieme. In quel padiglione, ora, si ha una sensazione di maggiore tranquillità, c’è una bassa probabilità di aggressioni o di gesti di autolesionismo, perché quei ragazzi sono una squadra di rugby a tutti gli effetti

 Come se il rugby riuscisse in qualche modo a estraniarli dall’essere carcerati…

Molto di loro dicono che mentre fanno rugby si sentono liberi, vivi, e trovano la voglia di affrontare quello che poi viene dopo

Ora voglio farti una domanda provocatoria: alcune persone credono che il carcere debba essere duro, punitivo e non fatto di privilegi, come il poter fare sport o altre attività ricreative che, tra le altre, hanno un costo, in un momento economicamente non facile per tutti noi

Attività del genere vengono fatte da sempre nelle carceri. Il calcio è molto diffuso e vengono giocati diversi tornei negli istituti. Concepire il carcere come un qualcosa di orrendo e brutale è uno stereotipo della società; dovremmo sempre pensare in che situazione siamo prima di giudicare. Poi ti dico: chi vorresti accanto a te sull’autobus o al cinema? Un detenuto che è peggio di prima, abbrutito dal carcere o una persona rieducata, consapevole di cosa ha fatto che cerca di evitare di commettere nuovamente l’errore. Certo non è solo il rugby che può risolvere questa situazione, ma di certo può aiutare a creare un ambiente migliore, come migliore dovrebbe essere anche fuori, in certi casi. Il carcere deve essere rieducativo, perché un detenuto quando esce è un cittadino, come noi.

Come è cambiato nel tuo immaginario il significato della parola detenuto?

Questa esperienza ha cambiato un pochino anche me. Fortunatamente il libro è stato pubblicato, perché credo si tratti di uno strumento importante per affrontare questi argomenti, come stiamo facendo noi.

Non ero mai entrato in un carcere. Quando tu hai sete, prendi un bicchiere di acqua, bevi e ti togli la sete. L’acqua è comune, facile da trovare. Poni il caso di avere sete e non avere acqua. Allora ti rendi conto di quanto sia importante. Lo stesso vale per la libertà. Noi siamo liberi da quando siamo nati (bene o male). Immagina di essere privato di questa libertà. Non è possibile abituarsi alla privazione della lbertà. Grazie ai detenuti che ho incontrato ho imparato a capire il significato di essere liberi . Adesso imparo ad apprezzare molto più determinate cose  e dare meno importanza ad altre, come discutere per un parcheggio.

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