Sono scomode davvero queste poltrone, che poi chiamare poltrone i sedili di questo regionale scassato, mi fa venire in mente quell’aletta di 50 kg che si affanna sul campo per dimostrare che il rugby moderno non è solo fisico e meno che mai apparenza.
Non esiste un posto più scomodo dove sedersi in questo, solito ed interminabile viaggio che mi porta verso il campo. O forse no, se ci penso bene c’è davvero un posto peggiore: la panchina, anche se da tempo non mi ci siedo più, almeno non da giocatore.
Nemmeno un allenatore ci si siede quasi mai, ma per qualcuna è obbligatorio. Sono le riserve, il volto triste di una domenica di rugby. Quelle che l’allenatore in faccia non guarda quasi mai, ma non per un senso di malcelato disprezzo tecnico, no. Non le guarda perchè non si sente all’altezza del loro essere rugbiste. Spesso semplicemente perchè non trova le parole giuste per spiegar loro perchè sono li. Ma esistono davvero parole giuste?
La panchina è una sorta di purgatorio, non sai mai se considerarla un castigo, o un premio da parte dell’allenatore, che forse oggi ti ha voluto risparmiare il massacro che stanno subendo le compagne in campo o quel campo terribile che a volte ti ricorda un parcheggio in disuso di una qualunque grigia periferia urbana.
Le ricordo quasi tutte le mie giocatrici quando stanno in panchina, ma non so perchè idealmente mi concentro sempre sulla numero 23. Non è questione di facce o di nome, è quel numero che mi è sempre sembrato beffardo. Se chiudo gli occhi le vedo proprio ora, davanti a me, Matilde, Margherita, Elisabetta, Chiara, Gessica e tante altre ancora, così tante che qualche nome si perde, tra i mille aneddoti di ogni partita. Hanno tutte qualcosa in comune, grandi occhi, sorriso sincero, voglia. Le guardo li, di sfuggita, senza che se ne accorgano, nel loro essere in balia di decisioni superiori, come in una partita di poker o mentre si aspetta un lancio di dadi.
Riserva, una parola che non mi è mai davvero piaciuta. Mi piace invece quel numero 23, il numero della fortuna e della sfortuna, il jolly, baciato o respinto dalla dea bendata. Mi piace immaginare lei che lo indossa. Le poche possibilità che le si offrono sono l’infortunio, la stanchezza o la giornata storta di una delle titolari. Chissà quante volte avrà maledetto l’allenatore.
Di giocatrici in panchina ne ho viste tante in 15 anni, tutte con il loro mondo, i loro segreti ed i loro rituali: c’è quella che tiene un portafortuna tra le mani, quella che rivolge una muta preghiera al dio del rugby, c’è quella che fa gli scongiuri, ma soprattutto ce n’è una che non potrò dimenticare mai. Non ha volto, ma ricordo i suoi occhi, quelli dove ho sempre letto la determinazione a raggiungere lo stesso livello tecnico di chi le è stata preferita.
Un mondo a parte quello della panchina, dove si gioca una partita nella partita. In disparte, alcune giocatrici si scaldano, altre si addormentano, altre ancora chiacchierano e immaginano già il resto della giornata o della settimana.
Spesso l’attesa è spaventosa, grande è la solitudine. Che se la sia guadagnata o che arrivi per caso, quando la fortuna ritorna e quando viene il momento di entrare, il sogno più ambito è quello di strappare un cenno d’approvazione o chissà magari per una volta di essere decisiva, conscia che troppo spesso chi guarda è abituato a prestare attenzione a leader, fuoriclasse e trascinatrici anche quando purtroppo queste figure, sono lontane dall’immagine di eroine coscienziose e coraggiose.
E’ quando ti specchi in quella determinazione che capisci che la coesione di una squadra non dipende soltanto da chi la guida, ma da ogni singolo elemento, soprattutto “le riserve” (ma quanto è davvero brutta questa parola) e le cosiddette non protagoniste. Perchè è solo quando alla fine dell’anno ti ritrovi a fare i conti, che puoi comprendere a fondo il valore di chi sul campo c’è andata pochissimo, eppure è sempre stata li al tuo fianco, a ricordarti che non puoi mollare. Te lo hanno insegnato così, in silenzio, con tutto il coraggio di cui sono capici le donne, che è grande quando giocano, ma ancora di più quando accettano di non farlo perchè tu pensi (chissa perchè poi) che sia meglio così.
Sono loro che hanno saputo onorare il terreno di gioco e contribuire alle numerose vittorie del campionato nella maniera più completa e complicata possibile.
Ecco allora che si spiega come, anche chi per una domenica è rimasta ai margini del gioco, possa esultare insieme a tutte le compagne a fine partita. Ognuna di queste ragazze ne ha certo ben diritto, perché la partita della domenica non è altro che la punta dell’iceberg di tutto il lavoro che si produce dietro le quinte.
Per questo, tra i non protagonisti di ogni domenica vanno elogiati anche tutti gli altri gregari, dai magazzinieri agli allenatori in seconda, dai medici ai mental coach e a tutte le figure meno celebri e pubblicizzate che lavorano per il bene del gruppo. Il loro contributo è fondamentale per la buona salute di ogni squadra. Sono loro che possono insegnare la lezione dell’umiltà e della determinazione ed ogni buon allenatore sa che il futuro della sua panchina e della sua squadra dipenderà più dall’onestà e dalla solerzia di persone come queste che dalle piccole manie di grandezza di chicchessia.
Stazione centrale. Sono arrivato. Il capotreno fischia, è il momento di alzarsi e cominciare. E’ il mio turno di entrare in campo e meritarmi il cenno di approvazione. Il giudizio arriverà da un allenatore severissimo, uno di quelli che è meglio non deludere, visto che è poco incline a dare una seconda possibilità. Lo conosco da anni quell’allenatore, mi guarda dallo specchio ogni mattina.

Lorenzo Cirri

 

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