Quella giornata era stata particolarmente dura. Sfiancante, oserei dire. Mai fatto così tanta fatica. La doccia non aveva migliorato di molto la situazione, ma perlomeno, una volta tornato in salotto, avrei potuto stendermi da qualche parte senza grosse remore o altrui lamentele. Scelsi il pavimento, di un fresco di quelli che ti regalano un primo brivido e poi, questione di secondi, ti rasserenano le membra. Il divano, con la sua opulenta comodità e quella capacità di azzerare le energie vitali in pochi giri di lancetta, avrebbe forse dato una bella accelerata a questa sorta di sonnolenza che mi pervadeva, ma forse non era quello che avrei voluto.

Certe volte la stanchezza va ascoltata, non assopita.

Capita, non soffocata.

La casa era deserta e avevo solo voglia di raggiungere a tastoni il telecomando. C’ero quasi. Poi, a spezzare il silenzio, arrivò mio padre. Credo ci abbia messo qualche secondo per capire cosa ci facessi qui a terra. Poi, memore del fatto che il mio giacere a terra in questi frangenti sia forse il carattere che più ci fa assomigliare l’uno all’altro, andò oltre.

Non prima, però, di pronunciare quelle due parole: “Congratulazioni, ragazzo!”

Lo guardai stranito. “Per cosa?”

“Per la convocazione. Complimenti!”.

Riuscii finalmente nell’intento di agguantare il telecomando. Mi ci volle poco tempo per capire quel che mi aveva anticipato papà: gli All Blacks avevano bisogno di me. Avevano fatto il mio nome. Ero convocato per i due test match che si sarebbero disputati di lì a poco contro i Lions britannici. Non me l’aspettavo. Non così, almeno. Voglio dire, di solito prima di essere scelti e convocati si passa per alcuni passaggi intermedi. Qualche osservatore alle partite. Qualche stage con altri candidati al posto, per esempio. Ero praticamente sicuro che mi avrebbero considerato per i prossimi appuntamenti, per il tour in Francia e Italia, anche perché 50 partite con la maglia di Auckland, oggi come allora, pesano un bel po’ in un curriculum ovale. Cinquanta partite a 21 anni è un bel traguardo. Certo, avevo già vestito la maglia nera, ma erano i Colts, la nazionale under 21, volete mettere con la convocazione in Nazionale Maggiore? Volete mettere giocare con Sid Going, Billy Bush, Tane Norton? Volete mettere l’haka?

Sono cose con le quali non scambieresti nulla al mondo.

Certo, non credevo potesse succedere tutto così in fretta. Ma sembra che la trinità in panchina in quel momento, Jack Gleeson, Eric Watson and John Stewart, avesse un serio problema, un punto interrogativo grande come una casa: chi giocherà estremo?

Duncan Robertson non aveva convinto, dissero, sta di fatto che pensarono a me. Debuttai subito da titolare facendo compagnia nel triangolo allargato a due leggende come Bryan Williams e Grant Batty. Batty gioca a Bay of Plenty, a prima vista non gli dai un dollaro: piccoletto, pochi capelli, baffi a manubrio. Frega sempre, la prima impressione, nel rugby come nella vita. Corre come un levriero, sa usare entrambi i piedi e, non da ultimo, è cattivo come la peste. Non si scherza con quello lì. Williams, invece, sembra un divo da fotoromanzo. È un samoano alto, non filiforme, ma con una eleganza di movimenti che non ricordo di aver visto così spesso su un campo da rugby. A questo aggiungete un discreto piede dalla piazzola e una seria capacità di replicare il suo talento, visto che i due figli, Gavin e Paul, vestiranno a ripetizione la maglia della nazionale samoana. Giocava con me ad Auckland, Williams, dicono sia stato lui a fare il mio nome ai selezionatori. Selezionatori che mi hanno detto di stare dietro e stare tranquillo.

Mi rendo conto benissimo che, voi estremi del ventunesimo secolo, una cosa del genere la potete capire fino ad un certo punto. Pensate a gente come Ben Smith, Israel Folau o altri, tutta gente che prende e contrattacca il più possibile. Variabili impazzite di uno spartito più rigido di quanto possa mai sembrare. No, una volta l’estremo non giocava sempre così. Attendeva, era l’ultimo baluardo prima della linea di meta. Il contrattacco era qualcosa “in più”, qualcosa che si intuiva avrebbe scompaginato le tattiche, ma ancora troppo misterioso per essere maneggiato con cura. Quarant’anni fa l’estremo doveva principalmente saper difendere, calciare l’ovale nel modo più efficace (e potente) possibile e poco altro.

Stare dietro e stare tranquillo.

Eh, una parola.

I Lions sono una bruttissima gatta da pelare, c’è gente come Phil Bennett, Ian McGeechan, Willie Duggan. Una mischia di ferro e dei trequarti fortissimi. Non è facile debuttare contro di loro, non lo sarebbe per nessuno. Figuratevi per me, un ventunenne imberbe e con i lunghi capelli biondi, raccattato perché altri estremi, in giro per la Nuova Zelanda, non ce n’erano. A Wellington vinciamo per 16 a 12, ma tocco pochissimi palloni. Vengo riconfermato per il test di Christchurch, dove vengo coinvolto un po’ di più, ma perdiamo 13 a 9. Ripeto, non mi sembra di aver fatto così male. Due partite durissime, combattute, giocate con temperatura e vento proibitivi, e provate voi a calciare quando Eolo vi ride in faccia. Non è sempre bello, vivere controvento. Eroico sì, a volte, ma ci vuole una corazza che non sempre i vent’anni portano con sé. Non è che i selezionatori mi abbiano dedicato molte parole. Né a fine partita, né nei giorni successivi. Certo, potevo fare meglio, ad Auckland ero abituato a dare molto di più. Chissà, chissà se quelle due partite e una discreta carriera in bianco e blu mi sarebbero valsi un tour in Europa. Avrei dato tutto, per quella maglia. Per l’haka. Per migliorare ancora.

Non andai in Europa, quell’estate. Al mio posto chiamarono Brian McKechnie, estremo di Southland. Collezionerà 26 presenze, 24 più di quanto sarei mai riuscito a fare. Ma non fu questo a rendermi triste. Ci volle altro per mandarmi il morale in cantina. Qualche tempo dopo, infatti, qualcuno mi fece sapere che sì, quella volta ero stato convocato dagli All Blacks su consiglio di Bryan Williams. Ma solo perché avevano chiesto a lui di fare l’estremo, compito dal quale voleva smarcarsi a tutti i costi. Lui voleva correre, fintare, non restare fermo dietro. E, per togliersi di torno alla svelta gli interlocutori, consigliò loro il primo numero 15 che gli potesse passare per la mente.

Io, nella fattispecie. Suo compagno di squadra, giocatore di buon livello, decente al punto da potergli permettere di togliere le castagne dal fuoco. Non abbastanza bravo per la maglia nera, ma abbastanza adatto per salvarlo da ottanta minuti problematici.

Avrebbe potuto andarmi meglio, non c’è che dire. Restai ad Auckland per qualche anno ancora, poi finalmente Europa. Giocai e allenai a Parma e Rovigo, prima di tornare ancora a casa.

Qualche anno dopo qualcuno decise di lasciare qualche mia traccia indelebile al mondo. Caricarono in rete alcuni spezzoni delle due partite contro i Lions. Qualcuno disse che con ogni probabilità avrei potuto candidarmi per il titolo di peggior All Blacks di sempre, forse qualche chance di vincere qualcosa l’avrei pure avuta. In effetti in quei due minuti scarsi ne combino di tutti i colori: perdo palloni elementari, calcio delle ciofeche inenarrabili. Dicono che il mio calcio di punizione in touche sia il peggiore reperibile in rete. Non lo so, ho sempre cercato di guardare chi lavorava meglio di me, mai chi sbananava i calci.

Forse in quei mesi del 1978 non ero pronto, o non lo ero abbastanza. A dire la verità non si è mai pronti abbastanza per un haka vissuta in prima persona. A 21 anni può capitare di perdersi in un vento più grosso del nostro coraggio e della nostra incoscienza. Di imbattersi in una bufera che ci sradica e non ci dice dove ci farà toccare terra ancora. Ma sono contento di essermi fatto scuotere da quegli aliti. Sono cresciuto, mi sono fatto uomo, e pazienza se la mia occasione è stata fugace quanto la sua durata. Pazienza se certe cose non torneranno più. Pazienza se quei capelli erano tutto fuorché presentabili.

Saprò ancora stendermi a terra dopo certe giornate. A prendere tutto il brivido del pavimento, a domarlo. A far rilassare le membra nonostante quel breve imprevisto gelato.

A capire che l’inizio è sempre la parte del viaggio più difficoltosa. E a insegnare che, male che vada, si può sempre mostrare a tutti quanto siamo stati bravi a perderci e a ritrovarci tra scherni e beffe, tra venti contrari e giornate no.

Mi chiamo Colin Farrell e sono stato per due volte il peggior estremo che gli All Blacks abbiano mai avuto il coraggio di schierare in campo. Brutto, con dei capelli discutibili e due prestazioni dimenticabili nel portafoglio. Avvezzo al pavimento più che all’aria, al freddo più che alla gloria. Ma sempre consapevole che da qui, dal campo, il vento fa meno paura, anche quando ti fa male.