Di Matteo Mazzantini

“Ciao campione! Come stai? Era da un pezzo che non ci incontravamo, giochi ancora o cosa?”

“Ciao bello, vero! Era da tanto che non ci vedevamo. Beh io sto bene, solita routine…figli crescono… No, non gioco più, ormai l’età… A dire il vero, mi manca, ma che ci vuoi fare…la vita”

“Già hai ragione, bella vita quando ci allenavamo due volte al giorno… Ma adesso lavori? Alleni? Non avevi detto che avresti voluto rimanere nell’ambiente?”

“…Eh, l’avevo detto si, ma non è facile, non ci son soldi in giro e ben che meno lavoro… Ma ho un progetto! Se mi va in porto…”

“Ma dai!? Mi fa piacere! È un casino la vita dopo il rugby! Ma di che si tratta?”

“Hem…una cosa impegnativa, bella ma difficile…ora non voglio aggiungere altro, solo che è un bel progetto!”

 

Questa è una delle tantissime conversazioni, tutte uguali, con ragazzi ex-giocatori, che hanno vissuto di rugby fino ad un paio di anni fa. Poi è arrivata la crisi economica e per noi pure fisica… Ovviamente, essendo stati lavoratori che hanno basato la loro vita lavorativa sull’efficienza fisica, dopo i 35-38 anni si trovano inevitabilmente in crisi. In più il nostro pseudo – professionismo ha preteso un impegno enorme, senza mai pensare ad un futuro duraturo per i giocatori. Ovvio, anche da parte loro c’è stata una mancanza di lungimiranza, visto che era chiaro che non lavorare fino a 35 anni gli avrebbe esclusi dal mercato del lavoro. Avrebbero dovuto coltivare interessi o studi alternativi allo sport. Ma non sempre è così facile. Avere tutti i giorni allenamenti alla mattina ed al pomeriggio, in genere in orari incompatibili con studi di università e tantomeno lavori vari, ti costringeva a scegliere tra rugby professionale (solo a volte pagato anche benino) e vita reale con un lavoro o uno studio qualsiasi.

Tutti quelli che hanno avuto la possibilità di fare i professionisti, lo hanno fatto, segno che comunque di una grande forza attrattiva da parte di quella vita. Ma a che prezzo?

Trovarsi a 35-40 anni al bar e chiedersi: “ciao come stai? Che fai adesso?”  “Ho un progetto…”

Ma che progetto? Che fare? L’idea iniziale era di trovare una squadra che a fine carriera ti offrisse lavoro, una cosa dignitosa e magari gratificante. Fino a che la situazione economica nazionale lo ha permesso, qualcuno c’è anche riuscito, ma adesso è dura. I lavori che vanno per la maggiore sono call center, facchinaggio e scaricatori, guardiano notturno, ma sempre con l’obbligo inderogabile di rendere al massimo in campo, perché se poi non giochi all’altezza del nome son cavoli! Capisci che fino ad ora hai “lavorato” per finta, non esiste per lo stato italiano il soggetto di lavoratore sportivo, non puoi pagare l’inps, non esisti. Perché non esisti? Perché se ci fosse stato, le società sportive dilettantistiche non avrebbero retto l’impatto, il professionismo disgraziato di questi anni sarebbe crollato subito. Parlo di Rugby, Volley Femminile, Calcio a 5, Calcio dilettantistico e molti altri sport. Uno schifo. Paghi le tasse a caso, fidandoti del commercialista e non dormi di notte. E’ una cosa incredibile.

Allora torna quel fantomatico “progetto”.

Quel maledetto progetto è un sogno, è una soluzione cercata, voluta, pensata la notte quando vai a letto e non riesci a dormire, quando pensi a cosa farai tra un anno, sei mesi, un mese e non vedi una soluzione duratura. Ti ingegni, colleghi i pensieri e sviluppi un idea che, a volte, sembra davvero buona, fattibile, magari in altri momenti sarebbe pure potuta andare, ma c’è la crisi… e il progetto resta li, poi cambia, poi incontri qualcuno che ti parla del suo progetto e così via…sperando.

Dicono che la speranza sia l’ultima a morire, speriamo…