Di Andrea Pelliccia

Il Jack’s Pub in Beak Street era affollato, come ogni venerdì sera: Brian e Paul fecero fatica per trovare due sgabelli liberi su cui sedersi per gustare la loro Guinness.

Rimasero in silenzio. Ad ascoltare il rumore di sottofondo di bicchieri e stoviglie e le voci degli avventori del pub. A inseguire i propri pensieri. Il ricordo della tragedia di due settimane prima, il timore per il giorno dopo.

Fu Brian a rompere il silenzio. Appoggiò delicatamente il boccale vuoto sul bancone e si schiarì la voce. “Lo sai che domani Tom Kiernan totalizza il cinquantesimo cap?”.

Paul abbozzò un sorriso. “Certo che lo so. È il primo irlandese a raggiungere il traguardo delle cinquanta presenze in Nazionale”.

Brian si sporse verso l’amico. “Allora ci andiamo domani a Twickenham?”.

Paul posò il boccale e si alzò, senza rispondere. Brian lo seguì, in silenzio. E in silenzio fecero il viaggio di ritorno nel treno che portava a Sunbury, a ovest di Londra.

Ronan e Patrick erano già rincasati. Anche loro studenti universitari. Anche loro nordirlandesi. Di Derry. O, come la chiamano gli inglesi, Londonderry.

Il mattino dopo, il primo pensiero di Paul fu per i propri familiari. “Ciao papà”, disse al telefono. “Come stai?”.

“Bene, figliolo. Anche tuo cugino Kevin sta meglio. I medici dicono che lentamente potrà riprendere a camminare, anche se il proiettile gli ha maciullato la tibia”.

“E il signor Johnston?”.

Il padre di Paul sospirò. “Nessuna buona novità, purtroppo. È sempre molto grave. Non si sa se ce la farà”.

Una domenica di fine gennaio. Gente che sfila pacificamente per le strade di Derry per reclamare i propri diritti e si ritrova davanti una compagnia del Reggimento Paracadutisti di Sua Maestà. Decisi a riportare l’ordine in una delle città più turbolente dell’Irlanda del Nord.

Cominciano a sparare sui civili inermi, disarmati.

30 gennaio 1972. Tredici morti. Una domenica di sangue. Bloody Sunday.

“A te come va, Paul?”.

“Abbastanza bene, papà. La prossima settimana ho un esame importante all’Università”.

Il padre di Paul cambiò argomento. “Oggi giochiamo contro gli inglesi. Ci vai a Twickenham, vero?”.

Paul esitò alcuni secondi prima di rispondere. “Non so, papà, non credo. Dopo quello che è successo due settimane fa e con la minaccia dell’IRA di compiere attentati”.

“Devi andarci”, proseguì il padre di Paul con calma. “Il rugby non ha nulla a che vedere con quel massacro. E poi i ragazzi in campo hanno bisogno anche del tuo sostegno dalle tribune”.

Ancora un’esitazione di Paul. “Va bene, papà, ci penserò. Anche il mio amico Brian vorrebbe andarci”.

Paul terminò la telefonata. Si accorse che Brian era pochi passi dietro di lui e aveva ascoltato la conversazione”.

“Allora?”, chiese Brian.

“Allora preparati. Andiamo a Twickenham!”.

Fuori lo stadio, sulle tribune una calma apparente ma una tensione palpabile.

Lo stadio era pieno come sempre, ma Paul e Brian non sapevano dire quanti irlandesi ci fossero.

Lo capirono al momento degli inni. Le due squadre allineate a metà campo, l’inno irlandese, Amhrán na bhFiann, pronto per essere eseguito e cantato.

Si alzarono in piedi. Decine, centinaia, migliaia di trifogli che spuntavano in un mare di rose di Lancaster.

Sinne Fianna Fái

atá faoi gheall ag Éirinn.

L’inno cantato a squarciagola, con gli inglesi lì vicino, spalla a spalla, shoulder to shoulder, che avevano gli stessi brividi di quando eseguono God Save the Queen.

“Vinciamo noi, Brian, vinciamo noi”, fu il commento di Paul mentre Barry McGann, il mediano d’apertura, pronto per il calcio d’inizio, sollevava l’ovale in alto, verso un cielo di febbraio insolitamente limpido e terso.

Il risultato del primo tempo diede torto a Paul. Nove a tre per l’Inghilterra. Lo scontro fra i due estremi (entrambi capitani, entrambi incaricati di eseguire i calci piazzati) vedeva l’inglese Hiller prevalere sull’irlandese Kiernan.

Nel secondo tempo la lenta inesorabile rimonta, grazie alle mete di Flynn e Grace e ai calci di Tom Kiernan. Sedici a dodici per l’Irlanda, in un tripudio di sorrisi e di maglie verdi.

Un sabato di sport e sudore. E basta.

Seconda vittoria in due trasferte, dopo quella per quattordici a nove in terra francese.

“Quest’anno possiamo finalmente puntare al Grand Slam!”, gridò Paul mentre abbracciava Brian a fine partita. “Ci restano solo Galles e Scozia e li affronteremo in casa!”.

Tom Kiernan in Inghilterra – Irlanda del 1972 © Getty Images

 

L’Irlanda non conquistò il Grand Slam quell’anno. Non perché fallì la vittoria contro Galles o Scozia ma perché quelle partite non furono disputate.

Galles e Scozia, infatti, si rifiutarono di giocare quegli incontri a causa di minacce anonime (attribuite all’IRA) ricevute da membri delle rispettive Federazioni. A nulla servì la proposta irlandese di giocare in campo neutro.

Così quella di quarant’anni fa venne consegnata alla Storia come l’unica edizione del Cinque Nazioni a non essere completata.

Sfumata quell’occasione, l’Irlanda dovette rinviare ancora di un bel po’ la conquista di un nuovo Grand Slam dopo l’ultimo, che risaliva al 1948.

Un’attesa lunga altri trentasette anni. Così lunga che nessuno dei giocatori irlandesi che lo conquistarono era ancora nato all’epoca del Bloody Sunday.