Carajo, in che casino sono finito stavolta? Tra camalli torvi e ubriachi, tra nebbia fuori e dentro il locale, tra prostitute che non prendono iniziativa alcuna. Davanti ad un massiccio esemplare di essere umano, pezzo unico nel senso che non ci vedi torace ed addome. So solo che si è tolto le scarpe. Mocassini, per la precisione. Uno l’ha lasciato lì, l’altro lo tiene in mano. Stretto, entrambi i palmi esercitano una notevole pressione su quel brandello di bovino morto e trattato. Mi guarda, torvo pure lui.

Il tizio, intendo, non il bovino.

Bravo, così imparo a tenere la bocca chiusa. Sapete, nel serrare le mascelle, a volte, ci sono due vantaggi non indifferenti: il primo è che non si parla, e quindi si evita il rischio di parlare a vanvera. Il secondo è che non si introducono sostanze. Ecco. Stasera, come le altre sere, ho fatto uno zero su due così netto e inequivocabile che nemmeno se mi fossi impegnato.

Ho bevuto come una cloaca e ho parlato troppo.

E no, non è la prima volta.

Certo che mi hanno provocato, tutto quel che volete, ma se avessi bevuto e basta tutto questo non sarebbe successo. Sarei passato per uno dei tanti porteños di passaggio qui al porto di Genova. Uno dei tanti marinai che passano di qui, sfatti per il viaggio o con la schiena spezzata dal duro lavoro giornaliero. Uno di quei personaggi avvolti da un alone di mistero, con un nome italianissimo, Roberto Matarazzo, e un cuore che più argentino non si può. Uno di quelli che, solitari e taciturni, in mancanza di amicizie e compagnie avrebbe preso nota sul dove e sul come racimolare un po’ di amore dentro a un bar. Ne circola più di qualcuna, qui in zona. Certo che potrei, ma non mi interessa. Non, qui almeno. O forse non così. No, mi sono bevuto parecchi soldi di birra e, come tanti, ho cominciato a straparlare. Ma mica per cattiveria. Sono di Buenos Aires, ve l’ho già detto, nome e cognome sono italiani, e vi ho detto pure questo. All’inizio mi hanno preso pure in simpatia. Poi ho continuato a menar la bocca. Ho parlato della mia città, del mio porto, di quel che faccio lì.

E di rugby. Capita, ogni tanto, quando la luce ovale la irradi senza consapevolezza.

Ho scoperto che a Genova c’è una discreta squadra e allora ho detto a tutti che sono un giocatore.

E che gioco con i Pumas.

Hanno cominciato a prendermi per il culo. A pensarci bene, è la prima cosa che farei anch’io.

Señores, mica dico un bugia. Ho giocato centro per la Nazionale Argentina.

Più di una volta.

Ho segnato pure tre mete in una sola partita. D’accordo, era il Paraguay, il rugby da quelle parti è qualcosa che hanno visto troppo poco, ma sono finito pure in Sudafrica, contro le Gazzelle. Che sarebbero gli Springboks, ma sono gli anni dell’apartheid e nessuno gioca (ufficialmente) contro la Nazionale Sudafricana. Ho giocato centro dietro ad Hugo Porta, carajo lo conoscete Hugo Porta? Un fenomeno, un gran fenomeno. Da avversario, quando gioca col Banco Nación, ci massacra ogni volta. Hijo de puta. E pure per noi centri, in Nazionale, era durissima: la palla la vedevamo poco, calciava tantissimo, ma di giocatori così ne nascono due o tre in un secolo.

Nel mondo, claro.

Un onore sacrificarsi per lui, a volte. E mica ho indossato solo quella maglia: sono un giocatore del SIC, il San Isidro Club. Ne sono passati tanti, di fenomeni, da queste parti. Mi raccontava mio padre che con questa maglia ha giocato pure il Che. Che Guevara, sì, proprio lui. Un bel mediano di mischia, mi diceva. Grintoso, non un gran fisico, ma gran placcatore. Ha smesso presto, il resto delle sue fasi di gioco terrene lo conoscete anche voi. Niente, questi non ci credono. Alcuni ridono, altri prendono in giro. Qualcuno mi guarda male, che mica è facile essere di buon umore quando sei a miglia da casa e hai faticato come un mulo per tutto il giorno. Un paio di prostitute mi guardano con materna bontà, quella solitamente riservata ai bambini troppo piccoli e/o troppo ingenui per essere puniti corporalmente . Sono su di giri, sento le gambe impastate e ho un’estrema necessità di spiegare tutto quello che questi altri non credono. Ad un certo punto, però, uno di loro mi fa cenno di uscire. Di solito, quando ti dicono così, significa che è meglio saper muovere un po’ le mani. Che è meglio aver sferrato qualche destro nelle precedenti puntate. Due o tre colpi li so dare, pure in campo non mi tiravo indietro quando era il caso di farsi rispettare, ma non è mai il caso di fidarsi troppo di sé stessi, soprattutto quando i combattimenti sono tutto fuorché convenzionali.

Esco dal locale e mi ritrovo davanti quel che tutti fanno intendere possa essere il mio avversario. Cazzo, è brutto forte. Cipiglio da eroe di guerra incazzato, cicatrici e segni di punti di sutura in viso, un fisico statuario. Sarà l’oscurità, sarà l’ultima birra che ho bevuto, ma non vedo dove finiscono le sue spalle.

Mi guarda male.

“Sei te quello che gioca a rugby?”

Dicono sia il giocatore più forte di Genova, uno che da queste parti non era mai passato prima. Avrà 35, 36 anni. Qualcuno, dicono, è fuggito dal locale per andare a dirgli che c’era un argentino molesto che diceva di essere un bel giocatore di rugby. Vogliono darmi una lezione, a quanto pare.

“Belin, sei te che giochi?”

Lo sguardo è ancora più truce. Non l’ho mai visto prima d’ora, ma ha qualcosa negli occhi che me lo fa sembrare più vicino di quanto si possa immaginare. Sarà il mare, sarà il porto. Faccio di sì con la testa.

“E allora mettiti là. E placcami, se ci riesci.” E mentre dà queste indicazioni si toglie i mocassini. Uno lo mette da parte, l’altro lo stringe in mano. È il suo pallone da rugby.

Poi parte.

Carajo, in che casino sono finito stavolta? Tra camalli torvi e ubriachi, tra nebbia fuori e dentro il locale, tra prostitute che non prendono iniziativa alcuna. Davanti ad un massiccio esemplare di essere umano, pezzo unico nel senso che non ci vedi torace ed addome.

Più si avvicina e più sembra insormontabile. Deve essere una terza linea, o forse un numero 8. Ha una dirompente, una di quelle cavalcate che si aspettano l’ostacolo ma che comunque hanno già deciso a tavolino che la loro corsa non si arresterà lì. Me ne rendo conto, farsi prendere dallo sconforto sarebbe molto umano. Sto giocando palesemente fuori casa, nella nebbia e tra gente che mi guarda in cagnesco. Ci sarebbero tutti i presupposti per continuare a non vedere nulla nonostante gli occhi aperti. Per simulare l’atto, cadere bocconi a terra e farmi offrire qualcosa dal primo cireneo di passaggio. Ma è un attimo, una questione di istanti fragili. Lo guardo bene e vedo che le gambe, per quanto grosse e guizzanti, non sono del tutto imprevedibili. Tentano una finta, abbozzano, le miro con tutta la forza che ho.

Un placcaggio della madonna. Va giù che è un piacere.

Forse non ve l’ho detto, o forse mi sto ripetendo. Io amo il rugby, al di là dei risultati che mi porto nel curriculum. Ne parlo, non ricambiato a volte, ma la cosa che più faccio fatica a trasmettere a chi ho vicino è che il mio cervello, nel momento del bisogno, si libera.

Si dà una lucidata e fa il suo.

In certi casi mi fa vedere anche dove la nebbia renderebbe vano ogni sforzo.

Silenzio assordante nei dintorni.

Il mio avversario si rialza, riprende in mano la sua personalissima palla e mi squadra. Credo stia provando la sensazione di chi, dopo lungo peregrinare, ha trovato qualcuno che suona il suo stesso spartito. Si rialza, ritorna al suo posto e ci riprova. Ancora una bella corsa, ancora quelle gambe che paiono tronchi, lo prendo di nuovo. A terra nel selciato.

Il rumore, nonostante il crepitio del selciato a terra, è discretamente sordo.

Questo l’ha sentito.

Qualcuno abbozza un “ooh” di stupore, qualcuno teme che il mio avversario si incazzi di brutto.

Credo di essere il primo della lista.

Il mio avversario si rialza più lentamente e mi si avvicina.

Tende la mano.

“Belin, sei forte davvero. Hai da fare domani?”

Sto aspettando il mio prossimo passaggio, non è che abbia tutta questa fretta.

“Se non hai niente da fare sei convocato per la partita di domani. Giochi con noi, con le Zebre. Contro dei sudafricani. Ci stai?”

Mi tende la mano. Restituisco il favore.

Si chiama Marco Bollesan ed è il capitano della Nazionale Italiana. Terza linea e numero 8, avevo indovinato. Siamo fisicamente diversi, ma suoniamo lo stesso spartito. Veniamo dal porto entrambi, da due vite fatte di lavoro, di fatica e di qualche bicchiere in solitaria. Non l’ho mai visto prima d’ora, ma ha qualcosa negli occhi che me lo fa sembrare più vicino di quanto si possa immaginare. Sarà il mare, sarà il porto. Sarà il rugby, e quella capacità di vederci chiaro anche quando a fare le veci di un pallone ovale c’è un mocassino. Sì, credo sia questo.

Mi chiamo Roberto Matarazzo, ho affrontato Gazzelle, nebbie impervie e capitani di altre Nazionali.

Si placca tutto, basta avere il rugby nel corazón.