Lo sanno benissimo i gallesi, sia quelli sugli spalti sia quelli negli spogliatoi. Dissimulano, cantano a squarciagola come nei giorni belli, in tanti ingollano birra per fregare la tensione. Non è così però nei sotterranei del Flaminio, nella stanza dei bottoni. Il coach sa benissimo che il Sei Nazioni non può essere cosa sua. Non potrebbe esserlo a ranghi completi, figuriamoci così, con 7 infortunati, tutti possibili titolari. No, l’Inghilterra di Woodward è un’altra cosa. La Francia? Ha fatto il Grande Slam l’anno scorso e ha costretto al pareggio gli All Blacks. No, gli All Blacks li tengono in scacco per un bel po’, vero, ma quando è finita la benzina sono arrivate tre mete una dietro l’altra. La Scozia? Ha umiliato gli Springboks. Gli irlandesi devono venire a Cardiff, ma hanno quel fenomeno là dietro, Brian O’Driscoll, che appena gli arriva una palla fa girare partita, dalla parte giusta, e avversari, dalla parte sbagliata.

E allora resta l’Italia, la piccola e fragile Italia, caricata da una vittoria incredibile contro la Scozia e poi sgonfiatasi piano piano, tra i suoi limiti e i curricula avversari. 14 sconfitte su 15 partite, alcune stanno lì, nei record negativi del torneo. Ad imperitura memoria. Eppure Steve Hansen non è tranquillo. Non è la prima volta che affronta l’Italia da coach. Nel 2002 era finita con un tanti a pochi a Cardiff, aveva studiato bene le mosse del suo connazionale, Brad Johnstone. Non che fosse difficile prevedere cosa avrebbe fatto l’ex pilone All Blacks, uno che fino a qualche anno prima diceva che il rugby si fermava al numero 8. È che quell’omone che in tre anni ha imparato a dire giusto “Ciao” e pochi altri convenevoli non c’è più. Esonerato. Al suo posto sembrava dovesse arrivare Alain Gaillard, allenatore francese di Castres, sponsorizzato dal buon Pierre Villepreux. La Federazione però nicchia e chiama John Kirwan, già collaboratore di Johnstone e quindi già dentro ai meccanismi azzurri. Il nuovo ct non riesce a raddrizzare un 2002 partito malissimo. È vero, statistiche alla mano vince solamente contro Spagna e Romania in due partite di qualificazione ai Mondiali. Ha il merito però, perso per perso, di far debuttare tutta una serie di ragazzini terribili in Nuova Zelanda. Il capitano è uno dei fari della mischia del Petrarca, ha solo 22 anni ma per tigna e carisma gliene dai altri 6 o 7 comodi. Si chiama Marco Bortolami, segnerà anche una meta d’intercetto in faccia a Lomu e compagni. Poi si limiterà ad essere capitano ovunque decidesse di giocare, Gloucester e Narbonne in testa. Scusate se è poco. A numero 8 a Hamilton debutta pure uno sbarbatello diciannovenne, figlio di Sese, terza aquilana emigrata in Argentina e appena sbarcato alla Benetton Treviso. Si chiama Sergio Parisse, da lì a poco diventerà quanto di più completo si sia mai visto a numero 8 a livello mondiale. Arriveranno poi Mirco Bergamasco, Martin Castrogiovanni, Gonzalo Canale, tutta gente made in Kirwan o giù di lì. Il novembre azzurro è terribile, nemmeno lottiamo contro i Pumas, ma il coach sa già che i risultati non si vedranno lì. C’è troppo da fare, dopo le macerie dell’era Johnstone. A livello fisico, ma soprattutto a livello mentale. Poi si può anche parlare di gioco, più sfrontato e meno conservativo, ancorato su una serie di giovani e su qualche veterano al canto del cigno. Come Dominguez, che lascerà l’azzurro a giugno, o come Paolo Vaccari, uno degli eroi di Grenoble e di Dublino. Kirwan apre poi agli equiparati convocando Matthew Phillips, numero 8 già All Blacks under 21, in forza a Viadana. È uno di quei neozelandesi consigliati negli anni ’90 da Graham Henry ai gialloneri. Ne sbaglierà pochi di consigli, a dir la verità, il neozelandese. La terza linea azzurra sembra, insieme alla mediana, il reparto più completo: Aaron Persico scava sottoterra, De Rossi e Phillips garantiscono corsa e placcaggi.

Un attimo però, manca qualcuno all’appello.

La terza linea azzurra più forte del lotto, per la precisione.

Mauro Bergamasco, perché di lui stiamo parlando, non è infortunato.  È in campo, ma è all’ala. Kirwan lo vede lì. Non ha tutti i torti il nuovo tecnico azzurro, Mauro ha una velocità di base che poche terze linee europee possono tenere. Contro la Scozia nel 2001 ha segnato una delle mete più belle della storia del 6 Nazioni azzurro seminando Chris Paterson e compagnia. E poi, se Kirwan dice che sei una buona ala, beh, qualcosa di buono nel serbatoio la devi pur avere. Solo che Mauro vuole stare in mischia, sta bene lì, dice. Lo dicono in tanti, ma Kirwan non vorrà sentir ragioni. Non ha esitazioni. Quelle le lascia a Steve Hansen, che è sempre lì dove lo abbiamo lasciato, preoccupato e immerso nella pretattica, negli spogliatoi del Flaminio. Gli mancano fior di giocatori, a cominciare dal monumentale Neil Jenkins, primo al mondo per punti segnati in Nazionale. Lo supereranno nella speciale graduatoria solo Dan Carter e Jonny Wilkinson.  Manca Stephen Jones, suo erede dichiarato. Mancano anche Shane Williams, Jamie Robinson, Sonny Parker (a proposito di neozelandesi passati per Viadana), ma i trequarti non sono mai stati un problema nella Land of my Father. Hansen in mediana mette Iestyn Harris, stella del League e abile negli inserimenti, ma troppo prevedibile e poco pratico nei calci tattici. Sarebbe più a suo agio da primo centro, ma nel roster c’è solo un’altra apertura, Ceri Sweeney. Meglio non rischiare. Dietro c’è solo l’imbarazzo della scelta: Rhys Williams, Gareth Thomas, Mark Jones, Tom Shanklin. Gli inni non fanno passare la paura, nonostante i gallesi sugli spalti siano ben di più dei supporters italiani e il loro inno sia una dichiarazione d’amore come poche altre ne sono state scritte nella storia. Gli azzurri sono carichi e lo si vede subito: poche fasi, al massimo due, poi palla a Dominguez e calcio alto ad esplorare il triangolo allargato. Sotto, a cacciare, Cristian Stoica. Li spingiamo indietro, poi recuperiamo il possesso. È proprio Stoica ad andare oltre, ma Rhys Williams si mette sotto e non permette di schiacciare la palla. Ci pensa Ciccio de Carli, qualche secondo dopo, a regalarci il vantaggio. Dominguez trasforma. In tribuna la gente strabuzza gli occhi, non è abituata a vedere tanta grazia. No, non per la meta, non solo almeno. Gli azzurri giocano a viso aperto, allargano il campo, fanno metri. La vedi la mano di un trequarti, in questa squadra. Solo che a sfidare il Galles così si rischia, se ad un gioco così garibaldino non aggiungi una gran capacità di dare del tu alla palla. E va a finire così, due volte ci rubano il possesso, due volte ci allargano il campo e due volte arrivano in fondo. Fate voi le statistiche. Punteggio ribaltato, 14 a 7 per loro. Noi, incoscienti, ricominciamo. Dominguez sbaglia un calcio tra le due mete, poi però si inventa un passaggio all’interno, siamo quasi in bandierina. Con la coda degli occhi ha visto arrivare Carlo Festuccia, tallonatore dell’Aquila, debuttante. Non che ci pensi molto, Carlo. Giù la testa e via, i gallesi non tengono, è pareggio. Si fa male Raineri, Vaccari passa a centro, dietro entra Mirco Bergamasco, un fulmine di guerra in campo aperto, ma che per poco non regala una meta ai gallesi. È una gran bella partita, loro passano al piede con Harris, Diego risponde. Mauro Bergamasco arriva ad un soffio da una meta in bandierina, lo ferma Gareth Thomas. Il ritmo è sincopato, rischiamo grosso ogni volta che i gallesi montano, ma in qualche modo ci salviamo e reggiamo.

Ha ragione Kirwan però, siamo messi bene in campo. Il Galles ha più gambe di noi con i trequarti, si vede, ma in qualche modo li irretiamo, li facciamo sbagliare. Non può durare a lungo tutto questo, lo sappiamo bene, e allora meglio usare il piede quando serve. Lo fa Dominguez con un drop a fine primo tempo, e andiamo in vantaggio. Lo fa anche Troncon nella ripresa, quando decidiamo di vendere la nostra metà campo. Se proprio i gallesi vogliono far andare le gambe che lo facciano a casa loro. Da casa loro. Il risultato è che i loro trequarti si vedono arrivare palloni alti e difensori, senza poi poter ripartire serenamente. Li teniamo lì, loro si passano palla e pressione, non risalgono più di tanto. Cominciamo ad andare in riserva però, soprattutto in mischia. Martinez è provato, ha retto la baracca per 60 minuti, al suo posto entra Perugini, ma deve rientrare subito dopo, perché Totò si lussa una spalla alla prima spinta. Siamo fuori dai loro 22, introduzione nostra. Loro ci girano, quasi ci rubano palla, ma Troncon è un gatto e la soffia a Peel. Da terra serve Dominguez, che vede il buco e attacca la linea. Poi serve De Rossi all’interno, che stai male per lui per quanto corre e placca. Arriva ad un passo dalla linea, lo ferma Thomas, ma la palla arriva a Phillips, è meta. Se i gallesi sugli spalti si stavano chiedendo quando avrebbero ricantato il loro inno, che di solito parte in automatico quando il match si piega dalla parte giusta, beh, hanno avuto la loro risposta. Accusano il colpo, non riescono ad uscire dalla loro metà campo. Diego prova tre volte il drop, gli riesce solo l’ultimo, andiamo sul 30 a 17.

Finita? Macchè. In qualche modo gliela riapriamo noi, con Bezzi che colpisce involontariamente Mark Jones e si fa buttar fuori per 10 minuti. I gallesi non ne hanno più, ma con la forza della disperazione vanno oltre con Peel. Harris fallisce la trasformazione, dovrebbero segnare 9 punti per girare il match. Non ne segneranno più. Anzi, rischiamo di andare in mezzo ai pali noi con Dominguez, che per poco non tiene in mano un intercetto da manuale. Finisce con i pochi italiani sugli spalti a cantare “Fratelli d’Italia” e a non volersene andare più, con Dondi che ironizza sulla “più grande vittoria italiana in trasferta”, con il Galles senza più grosse speranze di portare a casa scalpi. Perché l’Inghilterra di Woodward è un’altra cosa. La Francia pure. Perché si sfiora la vittoria con l’Irlanda, ce la si gioca a Murrayfield, ma no, il cucchiaio di legno vola a Cardiff. Noi ci esibiamo in numerosi voli pindarici sulle ali di Kirwan. Ci basta sempre così poco. Perdiamo tutte le altre partite, sfioriamo anche noi l’impresa in Scozia, con Inghilterra e Francia giochiamo solo 40 minuti, quelli nei quali i buoi sono già altrove. Sogniamo i quarti alla Coppa del Mondo, ma le nostre speranze dureranno poco. Verranno tarpate proprio dai gallesi di Hansen, che nel frattempo ha studiato e ristudiato tutte le nostre ingenuità. Ci faranno malissimo in un pomeriggio di fine ottobre, sbattendoci fuori dai gironi. Ma è un altro Galles, zeppo di talento e di sfrontatezza, che se la giocherà alla pari con gli All Blacks e con l’Inghilterra di sir Jonny Wilkinson. Soccomberà contro gli inglesi, vero, ma Hansen, in tutto questo, semina quel che raccoglierà Mike Ruddock, il suo successore, quello dello Slam 2005. Poi vincerà tutto quel che c’è da vincere con gli All Blacks, da assistant coach prima e da nocchiero poi, due Mondiali tra aperture richiamate mentre erano a pesca, semidei in pantaloncini come Dan Carter e Richie McCaw e domini imbarazzanti. E ripenserà, forse, a quel pomeriggio di Roma, quando un manipolo di giocatori al canto del cigno e di giovinastri al debutto mise a ferro e fuoco i primi bagliori di un Galles crepuscolare. All’abitudine tutta italiana di ragionare per compartimenti stagni, per singole partite, e di condannare Kirwan per un disastroso Sei Nazioni, quello del 2005, senza vedere quel che ha lasciato ai posteri. Poi, senza cambiare espressione (non è che ne abbia poi molte, in faretra), riderà di quella stagione in cui non riuscì a sentire nemmeno una volta un Land of my Father come Dio comanda.

Sono cambiate tante cose, ma in fondo, da noi, non è cambiato poi molto.