Felicità. Ci hanno girato film, scritto libri, riempito orecchie e diari di scuola. Ci hanno sempre detto che cos’è, dov’è, difficilmente però ti dicono come hanno fatto a trovarla, o come si fa a trovarla in giro per il mondo, in giro per i nostri giorni. Alzi la mano chi l’ha trovata, alzi la mano chi sa spiegarla. No, non è facile. Perché le emozioni non sono facili da descrivere così, su una tastiera o con il solo ausilio di un foglio e di una penna. E allora ci dobbiamo armare di immagini, di foto, di gesti, e cercare di prendere esempio, se proprio non sappiamo cos’altro fare. Felicità è libertà. Dicono. Indipendenza. Pare. Leggerezza. Ci siamo. Shakerato, ma anche mischiato, cercando di non lesinare con le dosi. È saper godere di tutto questo, anche se il momento presente non sembra il più adatto, sfruttare lo spiraglio di azzurro tra le nuvole grigie. Anche se il tuo passato, il tuo presente ed il tuo futuro sono fatti di spinte in mischia, di chili da spostare e/o sollevare, di qualche sporadica corsa a gambe impastate, casomai capitasse lo spazio. Di battute sui piloni, sulla loro incapacità di tenere il punteggio durante il match, sulla loro bravura negli autoscontri e nei terzi tempi, specialità sollevamento boccali. Sulla nebbia nel cervello che il campo ad un certo punto pare il Mortirolo. Cos’è la felicità per un pilone? Buttare indietro l’avversario, dicono. Placcare anche l’erba, magari facendo assaggiare il fango all’avversario che ci ha provato. Dicono anche questo. Una meta, una volta ogni tanto, che è sempre bello vedere un ciccione che segna, una volta ogni tanto. Avanti così. La felicità di un pilone, per chi scrive, ha la faccia tonda di Adam Jones, classe 1981 di Abercraf, una ventina di chilometri da Swansea, qualcosa in più da Cardiff. Barba e capelli che sembrano quasi finti attorno a quei 120 e passa chili di muscoli e birra, particolari che lo rendono quasi un compagnone da pub e da aneddoti sconci in un weekend di pioggia e di tempo da lupi. O al limite lo vedresti bene con un saio al posto di Michael McShane in “Robin Hood – l Principe dei Ladri”. Come Fra Tuck sarebbe perfetto. Solo che da una ventina di anni a questa parte il buon Adam è impegnato nei weekend. E per il momento il ruolo che gli viene meglio è quello del pilone destro. Costume di scena semplice come una maglietta col numero 3 stampigliato sulla schiena sa essere. Neath, Ospreys, Cardiff Blues, Harlequins, Galles, Lions, pure i Barbarians un paio di volte. Cambiano i colori, ma in 16 anni di professionismo il copione è sempre quello: spingi, placca, spingi ancora. Casomai un bel fallo a favore e le pacche in testa e sulle spalle dei tuoi compagni, grati perché li stai spingendo nella Terra Promessa. Mete poche, sette in sedici anni. E qualche uscita dal ruolo, ogni tanto. Ma cazzo che bei momenti. Felici.

Come all’Arms Park, anno di grazia 2014. Novembre, freddo che te lo raccomando. Da Limerick è arrivata la Red Army, il Munster, che a perdere proprio non ci sta. Sarà per la cattiveria agonistica, per il blasone, oppure perché in classifica gli altri corrono e non si può restare fermi. Sono più forti dei Cardiff Blues, ma la partita è in bilico. Dietro i padroni di casa hanno fatto acquisti di un certo livello, sono arrivati Tuculet e Amorosino, che non sono proprio gli ultimi degli ultimi. Ma la partita Cardiff la fa davanti, in mischia. A destra, sembra. Già. Maglia numero 3. Adam  Jones sta facendo diventare matto il pilone sinistro irlandese, John Ryan, che non è certo uno alle prime armi. Lo mette in croce, di lì non si passa. Passano i minuti, ne mancano 8 alla fine, Cardiff attacca. Dacey prova lo sfondamento sulla linea dei 22, il placcatore fa il suo lavoro, ma lo fa da posizione irregolare. L’arbitro allarga il braccio sinistro,vantaggio Blues, che significa azione gratis. Lloyd Williams, il mediano di mischia, capisce al volo e allarga il gioco. Vuole il blitz, forse, ma la palla finisce alla persona meno adatta del mondo. Adam Jones, esatto. Gambe troppo impastate per fare il Campese o il Carlos Spencer, mani troppo ruvide e callose per lanciare il gioco. Vittorio Munari, riferendosi ad un pallone caduto dalle mani di Quintin Geldenhuys, gigantesca (in tutti i sensi che vi vengono in mente) seconda linea azzurra, disse che non si può chiedere ad un mulo, nobilissimo animale di fatica, di vincere l’Arc de Triomphe dopo essersi fatto tutta la linea del Piave. Ecco, Adam Jones non sfugge troppo a questa logica. Riceve palla da fermo, la linea avversaria monta. E allora lui droppa. UPiù che una scelta una licenza poetica, se permettete.

Stop. Il tempo va in ghiaccio per qualche secondo.

L’ovale è anche ben indirizzato, finisce in mezzo ai pali, ma è corto di un sette-otto metri. Non male per uno che i piedi se li è visti per l’ultima volta, forse, da juniores. I telecronisti britannici, noti per il loro leggendario aplomb, non trattengono la risata. L’Arms Park applaude sonoramente e ride di gusto. È una standing ovation mica da ridere, considerando che in Gran Bretagna è dura trovare stimoli per ridere, a novembre, quando anche il sole alza bandiera bianca. È bello essere felici, farsi strappare una risata quando meno te l’aspetti. Adam Jones ride di gusto. Simula un inchino con tanto di cappello, ride ancora. Vantaggio finito, l’arbitro torna sul calcio, Davies trasforma, vantaggio Cardiff. Il Munster vincerà con una meta allo scadere, sono comunque una gran squadra, killer instinct e blasone non si improvvisano dalla mattina alla sera.

Ci hanno girato film, scritto libri, riempito le orecchie e diari di scuola. Ci hanno sempre detto che cos’è, dov’è, difficilmente però ti dicono come hanno fatto a trovarla, o come si fa a trovarla in giro per il mondo, in giro per i nostri giorni. Alzi la mano chi l’ha trovata, alzi la mano chi sa spiegarla. No, non è facile. Forse però, dopo più di 300 partite da professionista in giro per il mondo a ribaltare mischie, a sbattere testa e ossa contro la testa e le ossa di qualcuno del tuo stesso umore, ma la divisa di un altro colore, qualcosa come un drop può servire a qualcosa. Ad evadere dalla gabbia, per esempio. Nonostante i garretti non siano quelli di Shane Williams, né il mirino sia quello di Jonny Wilkinson. Nonostante il match sia ancora in bilico, nonostante l’autunno inoltrato britannico non sia cosa per tutti, soprattutto quando il sole marca visita. Nonostante la carriera sia da un po’ di tempo in discesa, magari lieve, ma pur sempre in discesa.

Il drop è un gesto tecnico difficile. Ci vuole coordinazione, tempismo, piede. Devi fidarti della palla. E di te. Essere felice di quel che sei e quel che fai, comunque vada. Sentire quel tepore dentro che ti dice che può anche andar bene così, nel caso vada male. A giudicare dalla risata, dagli occhi scuri che si stringono, dai capelli lunghi e neri, da quella barba che sembra disegnata, Adam Jones quel tepore l’ha sentito. E non credo di aver mai visto nulla che si avvicini alla felicità più di uno sgraziato pilone fatto di muscoli e birra che ride dei suoi limiti.

Felice, nonostante tutto.

Nonostante piedi fatti per tutto fuorché per calciare, nonostante un torace da tavola più che da panca, nonostante un ovale che il più delle volte rimbalza storto.

Felice nonostante abbia appena appeso le proverbiali scarpe all’altrettanto proverbiale chiodo.

Forse, a piedi nudi, quel drop sarebbe anche passato per i pali.

Quel che è certo, invece, è che Adam Jones, il suo sorriso da bambino avvezzo alle marachelle, quella barba e quei capelli che sembrano quasi finti attorno a quei 120 e passa chili di muscoli e birra, mancheranno parecchio.

Un altro campione è passato, si è inchinato al pubblico e ha riso di quel che è stato.

Davanti a questo non si può che provare un solo, unanime sentimento.

Se non vi viene in mente qual è, rileggete tutto da capo.