E’ terminato il mondiale femminile in Irlanda con la vittoria delle Black Ferns, le neozelandesi e con l’Italia che conquista la nona posizione al termine di una partita combattuta contro la Spagna, vinta ai supplementari, dal sapore di rivincita dopo la sconfitta contro le iberiche nel girone.

Messo da parte il torneo è il momento di trarre alcune conclusioni assolutamente personali sulla nazionale e sul movimento femminile in generale.

Per prima cosa, COMPLIMENTI.

Complimenti alle ragazze per il mondiale disputato e per quel senso di squadra che traspare in ogni azione, in ogni calcio di punizione guadagnato e in ogni meta segnata o subita. L’Italia dimostra di avere una guida tecnica eccezionale (Di Giandomenico e Cicciò hanno svolto un gran lavoro, oltre i risultati) e delle giocatrici di grande livello, su tutte Sara Barattin: leader oltre che capitano, giocatrice in grado di interpretare intimamente il rugby, fisicamente e mentalmente. Se ci fossero più giocatori/trici come lei in Italia avremmo ben altro rugby.

La nona piazza, poi, evidenzia pregi e difetti della nostra nazionale, che merita, visto il gioco e il piazzamento, di poter giocare con le grandi, ma a cui manca qualcosa per essere una delle prime tre o quattro squadre al mondo.

La sensazione è che l’Italia femminile assomigli alla nazionale maschile della fine degli anni ’90, quando gli azzurri erano in grado di mettere in difficoltà qualsiasi squadra portando a casa quei famosi risultati che ci hanno permesso di entrare nel sei nazioni. Da quel momento, però, è iniziato un lento allontanamento dalle grandi del rugby, con le altre federazioni in grado di investire in maniera precisa e importante, puntando inevitabilmente sul professionismo e su uno sviluppo non solo tecnico ma anche strutturale del rugby.

Nel rugby femminile, oggi, quel divario è ancora più evidente perché è stato repentino, visti gli investimenti degli ultimi anni delle altre squadre del Six Nations, l’Inghilterra su tutte e la Scozia, passata da facile bersaglio ad avversario temibile.

Per essere competitivi si deve essere per forza professionisti ed investire tanti soldi?

Sinceramente, non lo so.

Però penso che un primo passo vada necessariamente fatto.

In primo luogo considerando il rugby femminile in Italia alla pari di quello maschile, così i tecnici e gli staff e non pensare alle giocatrici come “quote in entrata” o “future mamme che porteranno i loro figli maschi a giocare a rugby (citazione n.d.a.)”.

Perché è impensabile, ad esempio, che le ragazze di Di Giandomenico si siano presentate al Sei Nazioni prima e al mondiale poi senza aver affrontato una sola amichevole di preparazione.

Una federazione che punta su una nazionale e quindi allo sviluppo del movimento non può trincerarsi dietro a nessuna scusa. Mi chiedo cosa sarebbe successo se una cosa analoga fosse avvenuta per la nazionale maschile.

E’ il momento di agire (forse è già troppo tardi).

Non so se l’aumento delle squadre del campionato di serie A sia un bene o un male, sarà il tempo a dirlo, ma è necessario dare nuova linfa al movimento, visto l’inizio di un nuovo ciclo, per preparare i prossimi appuntamenti di rugby a XV e di rugby seven internazionali.

Il rischio, ovviamente, è di perdere posizioni nel ranking e tutto ciò che di buono è stato fatto da chi nel rugby femminile ha sempre creduto.

A tal proposito i miei complimenti e i miei ringraziamenti vanno alle giocatrici come la Schiavon, la Gaudino e la Zangirolami, e tutte le altre “veterane”, simbolo di questa Italia vincente, in grado di creare e seguire un percorso che ha permesso di portare a casa tre partite in un sei nazioni, qualificarsi ai mondiali e combattere fino all’ultimo per un nono posto, che forse, ci sta pure stretto.

@valeamo