Calma piatta, silenzio, relax. Quasi relax. Se qualche pesce in più decidesse di abboccare sarebbe meglio, eh, ma non c’è di che lamentarsi. Birra ce n’è, l’amico cazzone anche, ma finché si pesca si sta zitti e muti, che così ci hanno insegnato. Accendo il telefono, chiamate perse. Ma chi mi vuole chiamare?

Richiamo o non richiamo? Massì, richiameranno.

No, dai, richiamo.

Stop. Il destino a volte è beffardo, ci prende in giro per un bel po’, ma quando decide che il momento è arrivato tu puoi trovarti a miglia di distanza, puoi essere in qualsiasi posto del mondo, ma non ci sono cazzi: ti viene a prendere. Nello sgabuzzino con la bella Betsie a spiegarle come gira il mondo nei giorni belli, genuflesso in Chiesa il giorno di festa a fantasticare della ragazzina seduta due file più avanti, oppure a pesca coi tuoi amici. Lui passa, ti prende per il coppino e ti porta con sé.

Basta solo una telefonata.

Magari ti fa vincere una Coppa del Mondo dopo 24 anni di attesa nazionale. Questa è la storia di come ogni tanto la vita decide di smetterla di burlarsi di te, ti offre una birra, una pacca sulle spalle e un po’ di riscatto. Poi ti da l’arrivederci ad un altro giorno, più in là, intanto goditela, se puoi. È la storia di un eterno piazzato che lascia il segno nell’appuntamento più importante, è il ragazzo normale, anche un po’ sfigatino, che vive il giorno di gloria con la bella della classe. Perché in tanti vorrebbero stare, almeno per qualche ora, con la bella della classe. Perché tanti vorrebbero essere, almeno una volta, Stephen Donald, classe 1983, da Papakura, nord della Nuova Zelanda, possessore di una discreta storia da raccontare a parenti, amici e donne ogniqualvolta vorrà parlare di quando il treno, per una volta, è tornato indietro a prenderlo.

Il ragazzo a 18 anni è già un discreto giocatore di rugby, professione mediano di apertura. Alto, prestante, bel piede tattico e belle mani. Nel 2004 va a giocare a Waikato, in ITM Cup, l’anno dopo è apertura titolare dei Chiefs nel Super Rugby. Viene convocato a più riprese anche nei Junior All Blacks, la “Nuova Zelanda A”, e ne diventa il recordman di punti. Tutto lascia presagire ad una carriera eccezionale, direte voi.

No, non in Nuova Zelanda, almeno.

Se sei nato in qualsiasi punto della mappa compreso tra Capo Reinga e Invercagill non puoi avere una carriera normale, con una palla ovale in mano. O forse, paradossalmente, rischi di essere veramente uno dei tanti. Perché uno così, fosse nato al di qua degli Urali, sarebbe stato uno dei numeri 10 più forti in circolazione. In Italia, per dire, sarebbe apertura vita natural durante con tanto di scongiuri e preghiere a divinità varie in caso di raffreddore e di rimpianti una volta appesi gli scarpini al chiodo. Anche in Australia avrebbe potuto dire la sua per la cabina di regia, nel dopo Larkham.

In Nuova Zelanda no, non va proprio così.

Non se nasci lo stesso anno di uno che a livello giovanile fa il fenomeno e si chiama Luke McAllister. Non se nasci quando a Christchurch e dintorni sta cominciando a sgambettare Daniel, il figlio di Neville Carter, discreto giocatore negli anni ’70 e ‘80, uno che a furia di riparare vetri e vasi rotti dal figlio si stufa e gli pianta due pali da rugby nel campo dietro casa. No, non è cosa. Stephen è forte, fortissimo, ma a queste latitudini o cammini sulle acque, anche per brevi periodi, o la maglia numero 10 la vedi ben poco. Per referenze chiedete di Carlos Spencer. No, non è cosa.

Nell’estate del 2008 però Dan Carter, in accordo con la Federazione, si prende un anno sabbatico dalla Nazionale e se ne va in Europa, a Perpignan. Donald aveva già debuttato a giugno con gli All Blacks, partendo dalla panchina. Il ragazzo ha talento, ma non è quel crack ad altissimi livelli che tutti erano pronti ad aspettarsi. Certo, i palati ovali, in quelle zone, non sono propriamente come i nostri. Contro Samoa arrivano il suo record di punti in un match, diciannove, e la prima meta. A novembre debutta da titolare a numero 10. Il ragazzo promette bene, fa girare bene i trequarti, ha un gran calcio tattico.

Una voce, però, comincia a rincorrerlo:

“Eh ma Carter è un’altra cosa..”

Grazie, trovatelo voi nella storia un altro così. Il 2009 sembra essere l’anno buono per esplodere: Dan Carter si rompe il tendine d’Achille a gennaio e deve saltare buona parte della stagione, i suoi Chiefs arrivano in finale di Super Rugby dopo aver battuto gli Hurricanes in semifinale. In finale è Donald a propiziare la meta del vantaggio con una bella fuga lungo l’out. Poi però contro i Bulls di Morné Steyn, Habana, Fourie du Preez e Victor Matfield (tra gli altri) è notte fonda, 61 a 17. A giugno veste la maglia nera numero 10 contro la Francia, arrivano una vittoria ed una sconfitta. Il Tri Nations vede i tuttineri vincere contro l’Australia ma soccombere agli Springboks targati Bulls, numeri uno del ranking e in un periodo di grazia. Donald non incide, alle sue spalle preme McAllister, schierabile anche centro. Poi ad agosto rientra un Dan Carter già in buona forma e ciao posto da titolare in Nazionale. In autunno prende parte al tour in Europa, ma non fa miracoli. Il 2010 gli regala quella che sembra essere l’ultima occasione: nella Bledisloe Cup entra al posto di Dan Carter a venti minuti dal termine e sul 24 a 19 butta fuori il piazzato della sicurezza. Poco male, direte. Ma a pochi secondi dalla fine un suo calcio di liberazione resta in campo e permette all’Australia di contrattaccare. O’Connor va oltre e trasforma per il sorpasso a tempo scaduto. A Donald arrivano insulti e minacce di morte da alcuni pseudo-tifosi, ma questo lo dirà solamente qualche anno dopo, quando questa storia sembrerà già passato. Sta di fatto che il sorpasso australiano allo scadere mette fine alla carriera internazionale del numero 10 dei Chiefs ad un anno dal Mondiale in casa, vista anche l’enorme concorrenza nel ruolo. Il 2011 è l’anno dell’addio anche al Super Rugby per “The Beaver”, soprannome appiccicatogli addosso dai suoi tifosi per via di quei due incisivi sporgenti e di quello sguardo appartenente ad altri universi, assorto. Anche perché i Chiefs hanno già annunciato che nel 2012 arriverà Aaron Cruden dagli Hurricanes. È ora di andare. In Europa uno così il posto lo trova abbastanza tranquillamente, tra le altre si fa avanti Bath, qualificatasi per l’Heineken Cup, ma c’è un problema: per giocare da straniero in Premiership bisogna aver conquistato almeno un cap da titolare in Nazionale negli ultimi 18 mesi, e  Donald non ce l’ha. Interviene però la Federazione neozelandese e ci mette, diciamo, una buona parola: “Miei cari inventori del rugby, uno come Donald in lì da voi fa comodo, e lo sapete. Quindi due sono le cose: o fate i puristi e perdete le partite o firmate. Toh, c’è giusto qui una penna”. Oh, non è che abbiano detto proprio queste parole, ma l’affare va in porto per due anni e mezzo di contratto.

I Chiefs intanto arrivano decimi, niente playoff, Donald se ne va in ferie. Calma piatta, silenzio, relax. Quasi relax. Se qualche pesce ancora decidesse di abboccare sarebbe meglio, eh, ma non c’è di che lamentarsi. Birra ce n’è. Poi suona il telefono. Chiamano da parte di Graham Henry. Già, perché si sta giocando il Mondiale e non tutto sta andando come vorrebbero i tifosi di casa. No no, i risultati ci sono: gli All Blacks battono largamente Tonga, scherzano con la Francia, poi però Dan Carter si infortuna all’inguine in allenamento, ciao Mondiale.

La seconda scelta è Colin Slade, Crusaders, come Dan Carter.

Come nella stessa squadra di Dan Carter? E quando gioca questo?

Gioca, gioca. Da ala. Da centro. Da estremo. Carter è dura che si sposti dalla regia. Ma Slade ha visione di gioco, corsa, piede. A fine stagione andrà agli Highlanders a guadagnarsi una maglia numero 10. Per il momento, contro Canada e Giappone, non fa rimpiangere il predestinato.

Solo che ai quarti contro l’Argentina anche lui si rompe.

Anche lui l’inguine.

Anche lui a casa.

È qui che Donald riceve la chiamata, serve una apertura da mettere in panchina. Contro l’Argentina era entrato in campo Aaron Cruden, anche lui possessore di una discreta storia: a 19 anni ha sconfitto un tumore al testicolo e ha vinto un Mondiale giovanile da leader. Il ragazzo è un’iradiddio negli spazi aperti, per i calci si farà (eccome se si farà), ma a 22 anni ha già fatto vedere numeri non da poco. Nel 2012 andrà ai Chiefs e farà vincere loro il titolo, ma questa è un’altra storia. Gli All Blacks battono l’Australia e in finale si trovano davanti la Francia.

Di nuovo. Le gambe tremano.

Già, perché questa Francia non è quella umorale vista nei gironi: questi per un’ora hanno fatto malissimo agli inglesi ai quarti. Contro un bellissimo e coraggioso Galles hanno rischiato grosso ma no, questa non sono più la squadra senza né capo né cosa affrontata nel girone. Non è solo questo però a intimorire i tifosi ad Auckland e dintorni: i francesi già due volte hanno distrutto i sogni neozelandesi di Mondiale, nel 1999 e nel 2007, e questi ricordi fanno ancora malissimo. Il loro capitano è un ex asso delle arti marziali, arrivato tardi al rugby, si chiama Thierry Dusatoir. È un leader che parla poco, ma quando lo fa è cassazione. Nel 2007 ha stabilito il record di placcaggi riusciti in una partita, stampandone trentotto.

Indovinate contro chi?

Se lo sognano ancora di notte.

In finale segna subito Woodcock, poi però si fa fatica. I francesi sono famelici nei breakdown, non ne fanno passare una. Gli All Blacks piano piano perdono un po’ di verve e cominciano ad avere paura. Anche perché nel frattempo Cruden si sbrana un ginocchio contro Trinh-Duc.

Interessamento dei legamenti, ciao Mondiale.

E adesso?

Donald si scalda, si spoglia. È pronto.

I tifosi mica tanto.

Che poi pronto, insomma.

Non tocca un pallone da un mese e mezzo.

La maglia non nasconde i due o tre chiletti che birra e relax gli hanno regalato.

Ma al 45’ scrive il suo nome nella storia.

Fallo francese, 30 metri dai pali, centrale. Richie McCaw indica i pali.

Donald mira.

La maglia gli lascia fuori qualche centimetro di fascia muscolare del maschio adulto, detta comunemente “pancia”.

Poi spara.

La palla sfiora il palo, ma passa dalla parte giusta, è 8 a 0.

Poco dopo Dusatoir segnerà la meta dell’8 a 7, ma il risultato non si schioda più.

È un po’ ironica la cosa: gli All Blacks vincono un Mondiale con una squadra di fenomeni, perché gente come Richie McCaw, Kieran Read, Conrad Smith e Ma’a Nonu non è che la puoi chiamare in modo tanto diverso. Solo che i punti decisivi li fa un giocatore che alla Nazionale ormai non pensava, e sperava, ormai più. Uno che aveva fatto già le valigie ed era già pronto a volare in Europa per riscoprirsi giocatore di alto livello. Un’apertura di talento nata nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, dove nulla ti è perdonato appena sei sotto standard, e a quelle latitudini gli standard sono parecchio alti. Fuori forma per via di un mese e mezzo a base di pesca e birre con gli amici. Sembra la storia che in tanti vorrebbero vivere, un giorno o l’altro, la storia di un treno ormai dato per perso e che torna in stazione solo per noi. La storia di una palla ovale che per qualche capriccio del vento ci rimbalza in mano e ci fa vivere un’altra occasione. Di una palla ovale da buttare tra i pali appena si può, come Stephen Donald.

Che non è uno dei tanti, è uno di noi.

O meglio, quello che un giorno vorremmo essere.

Ma, in fondo, questa è un’altra storia.