All’ultimo allenamento prima della partenza i ragazzi mi salutarono tutti calorosamente. Certo, qualcuno, verso la fine delle birre, ha tirato fuori vecchi sfottò, ma me l’aspettavo.

Chi non se lo aspetterebbe, in questi casi?

Altri mi abbracciano, altri mi picchiano festosamente. Prima, durante e dopo, come detto, si beve. No ragazzi, parto ma non vado in ferie. Mi promuovono, ma resto nell’organico. Mi sposto solo di un quattrocento chilometri per un mese. Chiamatelo “trasferimento”, io la chiamo “Coppa del Mondo”. Mi chiamo Georgi Shkinin, ho ventiquattro anni e la mia nazionale mi ha chiamato. Beh sì, un po’ me l’aspettavo. Non troppo, il giusto. Perché, per quanto poco, sono il capitano della Nazionale Seven del mio Paese. Sì, fate come volete, dite pure che il rugby a 7 in Georgia, Paese presente nella mappa ovale più che altro per le leggendarie fucine di uomini di mischia, del rugby a 7 se ne fa poco. Che potrebbe farsene pure poco dei miei 170 centimetri di altezza. D’altronde, se la tua nazionale di rugby è famosa per avere a disposizione una delle più cattive e forti mischie di tutto il mondo, se difficilmente riuscite ad immaginarvi un georgiano mingherlino, il fatto che ci sia uno sport per cavalleggeri da queste parti per forza vi deve lasciare un po’ così. Sì, facevo il nano alle recite, battuta vecchia quanto me. Prendete pure in giro, fate pure finta di aver appreso in questo momento dell’esistenza di questo sport olimpico nel mio Paese.

Mica mi arrabbio.

Al limite vi faccio il giro intorno.

Abito, vivo, lavoro e gioco a Blois, cittadina di poco più di quarantamila anime sulle sponde della Loira. Mi piace l’ambiente, mi piace il clima. E mi piace giocare a Blois, Federale 3, quinto livello francese. Se dite che questo sia un livello amatoriale forse non avete mai avuto la fortuna di provare cosa significhi. È durissima, la Cayenna del rugby francese. Ci sono ragazzini terribili e dalle qualità mostruose, gente con una carriera alle spalle che ve la raccomando, stranieri che fanno la differenza. Ecco, io dovrei essere uno di questi. Io il mio lo faccio, sono veloce e il piede lo so usare. Non lo so quanto sono forte, ma se tutti questi miei compagni sentiranno davvero la mia mancanza, se vengo sommerso ad ogni mia partenza da tutti quegli abbracci e se la Nazionale ha deciso di investire su di me, beh, qualcosa di buono devo pur avercelo dentro.

La mia Nazionale vuole stupire, vuole fare qualcosa di grande, nonostante un girone durissimo. Beh, si potrebbe iniziare, per esempio, col portare a casa la prima vittoria di sempre dei Lelos. In girone dopotutto c’è la Namibia, squadra contro la quale non possiamo sbagliare. E poi ci sono le tre favorite per il passaggio del turno: la Francia padrona di casa, l’Irlanda che ha perso il 6 Nazioni al fotofinish e i Pumas, l’Argentina, che negli ultimi anni si sono presi delle soddisfazioni mica da ridere. Oh, mica ci riescono tutti ad espugnare Twickenham così.

Noi, contro di loro, ci proviamo. Non che le alternative abbondino, eh, ma mica ci arrendiamo così. la nostra prima partita la giochiamo contro gli argentini, che al debutto hanno battuto la Francia. Da brividi, ma per un tempo non li facciamo respirare, il pubblico è tutto per noi. Il pubblico, cosa che forse a voi non fa effetto. Era da quando giocavo in Georgia che non vedevo tutta quella gente tifare per noi. Certo, da noi è un po’ diverso, si parla pur sempre di massima serie, ma nessuno di noi ha mai visto o sentito un pubblico del genere. Li teniamo a tiro per 45 minuti, poi loro fanno i cambi giusti e ciao. Ci tocca l’Irlanda, che non è che abbia fatto tutto sto partitone contro i namibiani. Sono impastati, lenti, barocchi. Hanno perso contro la Nazionale Italiana, perché quella partita al Ravenhill l’hanno persa e lo sanno benissimo, ma dicono faccia tutto parte di una preparazione a lento rilascio. Si parte piano, tanto le prime partite sono le più semplici, poi la condizione dovrebbe arrivare.

Noi, nel dubbio, partiamo come contro i Pumas: aggressivi, cattivi, incazzati come delle iene. Il pubblico, se escludiamo quello vestito di verde, è tutto dalla nostra. Vuoi perché siamo gli sfavoriti, vuoi perché tanti di noi giocano qui in Francia, vuoi perché se qualcuno decidesse di sgambettare i verdi loro non se la prenderebbero mica. Anzi. Loro hanno una cilindrata in più, forse due, e si vede. Basta leggere un qualsiasi referto del match. Ci sono O’Gara e Stringer in mediana, Hayes in prima linea, Horgan, Brian O’Driscoll. Io, davanti, ho Dennis Hickie, una leggenda alata. È alle sue ultime partite in verde, ha più di 30 anni, ma quando decide di muovere le gambe ho visto gente con molti anni in meno e molti capelli in più piegarsi di fronte a quei garretti. Sono forti, fortissimi, segnano con Rory Best da maul. Ma il motore non gira a dovere. Guadagnano metri alla mano, ma non concretizzano. Noi facciamo il nostro, difendiamo e ci ancoriamo al piede di Kvirikashvili, il nostro mediano d’apertura. Un po’ troppo, forse, ma non per gli errori coi drop o con i piazzati. È che noi trequarti l’ovale non lo vediamo proprio mai. Ci sta eh, la nostra forza è davanti, ma tante volte gli altri ti aspettano lì. Il mio primo pallone lo tocco dopo la mezz’ora, per dire. Non è un pallone banale, O’Gara ha calciato un grubber nella nostra area di meta. Curvo tutto, sono il primo ad arrivare. Mi chiudono la strada, mi giro e riparto. Ho un discreto scatto allo sparo, riesco a seminare due avversari, ma gli spazi sono stretti e Hickie, più pesante e più alto di me, mi scaraventa a terra. Ci ho provato, ma è mischia loro ai 5 metri. Più che una partita la nostra è una somma di sacrifici singoli e collettivi, ma rimaniamo incollati a loro. È fondamentale far sentire il fiato sul collo a chi ci è davanti, per quanto forte possa essere. Gli irlandesi perdono l’ennesimo pallone a ridosso dei nostri 22, noi lo contestiamo. Mi arriva un riciclo, credo sia il secondo pallone che tocco. E corro. Mi faccio metà campo indisturbato o quasi, poi calcio a seguire. Una ciofeca senza precedenti, e per fortuna che noi del Seven sappiamo fare tutto o quasi. La riprendo, riesco a servire da terra un mio compagno. I verdi sono per la prima volta in difficoltà in difesa, fanno fallo e accorciamo le distanze.

Siamo stanchi, distrutti, ma il pubblico ci porta praticamente in palmo di mano. Nell’intervallo ci guardiamo tutti negli occhi e oh, saremo pure sfatti come poche volte lo siamo stati, ma mica nessuno ha voglia di mollare. Gli irlandesi, intanto, sono rientrati in campo: riguardandoli bene, a freddo, avevano lo sguardo di chi ha capito che la partita doveva iniziarla in maniera differente. Hanno sbagliato tattica, hanno calibrato male le forze, ma noi mica ce l’aspettavamo. Sono divisi, sfilacciati, mentalmente assenti ingiustificati. Prendo un altro pallone e corro. No, lì dietro non hanno il mio passo. Non ridete, è così. Horgan e Hickie in campo aperto, almeno per oggi, mi guardano la targa. La differenza tra noi e loro, tra me e loro, è che a loro i palloni arrivano. Gli irlandesi saranno pure in difficoltà, ma hanno una velocità di manovra che noi non riusciamo ad arginare. E però sono schierati profondi. O’Gara, dietro al raggruppamento, serve Stringer, posizionato insolitamente all’apertura. Sono tante le squadre che nel 2007 hanno inserito nei loro quaderni uno schema del genere.

Stringer non ha compagni attorno, il più vicino è O’Driscoll a una decina di metri.

È forte, fortissimo, ma non ha in faretra un passaggio teso di quella portata.

O forse è quel che credo io.

Il salto del centro è da escludere.

Spero.

Nel dubbio mi lancio all’interno di BOD. Che sarà pure il più grande centro europeo degli ultimi vent’anni, sarà tutto quel che volete, ma sempre da fermo deve partire.

Se mi arriva l’ovale non mi prende più.

Mi arriva.

Non hai le gambe, BOD. Impreca pure contro Stringer, ma tu non mi prendi più.

Fanno 60 metri da qui all’eternità, Hickie alle calcagna.

Non lo faccio avvicinare, vado in mezzo ai pali.

Chiamatelo “intercetto”, io lo chiamo “Coppa del Mondo”. È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Non è fortuna come in tanti credono, tu in quel posto nel mondo ci devi essere e devi sapere perfettamente cosa fare e dove andare. La chiamo “Coppa del Mondo”, dicevo. Perché in quell’azione ci ho messo tutto quel che a questo sport posso dare: i garretti, la rapidità, la scaltrezza nel trovare l’angolo giusto e nel tenere il pallone in mano fino all’ultima emozione. Perché il rugby per me è tutto, perché la Coppa del Mondo merita tutto quel che riposa in me. Tutti i miei 170 centimetri, scarsi. Tutti i miei 70 chili, anche questi da rivedere senza vestiti. Tutto il mio sudore e tutte le mie volate, tutte quelle che volete.

Ve la faccio breve: quella partita l’abbiamo persa. Quelli come loro, contro quelli come noi, il coniglio dal cilindro lo trovano sempre. Sudano, imprecano, buttano in lavanderia le loro sette camicie, ma ce la fanno. Io vengo eletto Man of the Match. Primo georgiano di sempre a riuscirci. Forse l’unico Man of the Match a toccare così pochi palloni in 80 minuti. E primo giocatore di Federal 3, una delle più efferate cayenne del rugby francese, a vedere cotanta luce almeno per un po’.

Sapete, gli anni sono passati. Ho giocato ancora un po’ a Blois, dove mi hanno accolto da eroe e con un po’ di sfottò. Sempre francesi sono. Poi sono tornato a casa. Gioco ancora, mi diverto e mi sono reso conto più e più volte che i punti più alti della mia carriera sono definitivamente alle spalle. Me lo dicono i miei compagni di squadra tra una presa in giro e l’altra, me lo dicono i miei cari. Me lo dice il mio fisico, che giorno dopo giorno presenta un conto sempre più inflazionato.

Ma sono soddisfatto.

Il mio l’ho fatto, ragazzi: ho segnato in Georgia, in Francia, in faccia a BOD e a due passi da quelli che dicono essere i pali più alti d’Europa, quelli di Rovigo. Ci giocavamo l’ingresso in Challenge Cup, ci è mancato poco. Ho sfidato le frecce più veloci del mondo, gli orchi più grossi e imponenti che abbiano mai vestito una maglia da rugby. E, in ognuno di questi luoghi, ho cercato di ricordarmi come, in quella notte transalpina, io sia riuscito a vedere una luce che a gente ben più dotata di me è stata negata per un bel po’, a volte per sempre.

Mi chiamo Georgi Shkinin, e pazienza se non vi ricordate di me.

Mica mi arrabbio.

Al limite vi faccio il giro intorno.