Tana Umaga, bravo a sfruttare un Latham sfarfallante. Pita Alatini, che converge dopo la solita sgasata inarrestabile di Lomu. Chris Cullen, dopo che i centri All Blacks hanno letteralmente mandato al bar la prima linea di difesa. E ora c’è Lomu lanciato. Jonah Lomu. Fat Boy lanciato sul pianeta ovale, un ordigno che quel mondo l’ha sconvolto di brutto. Chi ha avuto onore e onere di giocargli contro dice che, lì vicino, non è consigliato pascolare. Si rischia come quando si oltrepassa la linea gialla in stazione. Corre, sfoga garretti che non avrebbero bisogno di diminutivi di sorta.

Dal calcio d’inizio sono passati sei minuti, meno. Quelli là, quelli vestiti di nero, hanno già segnato tre mete. Non una, tre. Ai campioni del mondo. Che è lunga da spiegare il perché quelli là, quelli vestiti di nero, è dal 1987 che non vincono una Coppa del Mondo. Tre mete all’Australia, che nell’ultima edizione, di segnature pesanti, ne ha subita una. Da un americano sparito dai radar senza nemmeno, in precedenza, aver avuto l’onore di vincere un Sanremo. Tre. E Lomu cavalca, ribalta, getta avversari a destra e a manca.

Difficile da credere, ma ogni tanto nel rugby serve aver fede. Che non significa pregare o credere in qualcosa che ci assicuri un terzo tempo migliore altrove. Chi è in campo ha bisogno di credere in qualcosa. Di avere un lumicino di speranza bravo a non spegnersi mai, o almeno a provare a non arrendersi alle brezze che ti stroncano l’esistenza. Sono grossi, quelli in campo, ma sono tutti uomini. Umani, meglio. E allora devono aggrapparsi a qualcosa, soprattutto quando la giornata non promette niente di buono. A quel piccolo sprazzo di azzurro che separa nubi minacciose e cariche di pioggia, per esempio. All’orologio che ora sembra correre molto più del normale, come capita spesso quando ci si trova in svantaggio.

A tutto ci si può attaccare, in certi casi. L’unica cosa che potrebbe scoraggiare tale attaccamento all’esistenza sembra essere quella palla di cannone con il numero 11 sulla schiena. In difesa fa il compitino, a livello tattico è forse il vero punto debole delle squadre in cui milita, ma quando riceve palla e corre è la cosa più simile ad un bulldozer a cui muscoli e ossa si siano mai avvicinati.

Si trova davanti il più piccoletto dell’altra compagnia, nato in Zambia. Potrebbe metterselo in spalla e farlo giocare come un pargoletto, volendo. Ma mica quella specie di fantino vuole mollare. Da qualche parte devono avergli insegnato che più grossi sono gli avversari e più fanno rumore quando cadono. Che pure loro, i giganti, hanno dei punti deboli. Logica vorrebbe che li si prendesse alle caviglie, di solito il punto più vulnerabile della specie. Lo rincorre, portandolo a ridosso della linea laterale. Poi lo prende per il braccio. Ci vuole coraggio per prenderlo lì, quell’arto è grosso come una sua gamba. Gamba e mezza. Nessuno dei due vuole mollare, fosse vivo Hemingway, tra un bicchiere e l’altro, due righe le butterebbe giù volentieri. Quello lì, quello nato in Zambia, punta i piedi a terra, lo costringe ad abbassarsi. L’altro, al colmo della tensione, va giù in piroetta. Il gioco prosegue altrove, ma rallenta. L’arbitro fischia un fallo, il biondino vestito di nero, uno che con sguardo timido e piedi d’oro il suo ruolo l’ha rivoluzionato, centra i pali. Tre punti sul tabellone, idealmente quattro punti pagati da George Musarurwa Gregan, mediano di mischia dei Brumbies e dell’Australia. Perché ad arrendersi, sotto di ventuno punti dopo soli 6 minuti, sono capaci tutti. Nessuno, in quei frangenti, pensa bene di fermare il camion mettendosi sotto le ruote.

Nessuno pensa di recuperare una partita.

Gregan, George Gregan, recupera partita e squadra.

Ringraziano in quattordici, inizialmente. Poi si aggiungono centomila e passa spettatori che stanno assiepando lo stadio e hanno già voglia di andare a casa.

Poi tutto il resto degli appassionati, quelli seduti sul divano di casa, ormai convinti che una birra sia durata più di un incontro sulla carta vibrante e combattuto e invece già finito. Scettici del fatto che, da lì in poi, australiani e neozelandesi, inglesi e francesi, isolani e continentali si sono goduti la più bella messa cantata che il rugby abbia mai proposto. Difficile da credere, ma ogni tanto nel rugby serve aver fede. Che non significa pregare o credere in qualcosa che ci assicuri un terzo tempo migliore altrove. Ma credere che un placcaggio, anche quello che sulla carta sembra meno probabile, anche quello di un normotipo di 173 centimetri sul Golia più performante che si sia mai visto tra quelle righe bianche possa cambiare le sorti di una trentina di energumeni tra i più forti nella loro specialità.

Nel rugby servono muscoli, furbizia, materia grigia. Ma la fede, quella negli uomini fatti di carne e placcaggi, quella che a volte risiede nel più piccolo tra voi, non scordatela mai negli spogliatoi. A volte, come in quella notte, riesce a tracciare meraviglie da dove ormai sembrava potersi depositare solamente la polvere.

Abbiate fede, quando scendete in campo. Nella vostra seconda linea bolsa e sfiatata, nel ragazzino al debutto. In George Gregan. In chi volete. Ma non mollatela mai, che nessun arbitro in buonafede vi dirà mai di rotolar via da lei. Casomai vi regalerà una notte come quella del 15 luglio del 2000, decisa poi da quel Lomu che qualche dio invidioso, qualche anno più tardi, ha deciso di rapirci pezzo per pezzo. Casomai, che siate credenti o meno, sarete spettatori non paganti della più bella messa cantata che uno stadio ovale possa mai ospitare. Che si vinca o che si perda.

La vostra.

Ma pure quella tra All Blacks e Australia non fu male.