Di Lorenzo Cirri

Fatica. Si. Più ci penso e più è questa la parola che da sempre ritrovo nel rugby. In ogni cosa che si fa, fuori e dentro il campo, che tu sia giocatore, allenatore o altro c’è sempre un sacco di fatica da fare. E’ nella difficoltà però che si ritrova sempre la determinazione tipica di chi maneggia la palla ovale. Da quando seguo il rugby in rosa questa parola è diventata un’onnipresente compagna di viaggio e di km di rimbalzo, dietro al pallone ovale, ne ho fatti parecchi. Fatica. Si, perchè che ci crediate o no per le ragazze del rugby la fatica è sempre davvero tanta. Le ragazze del rugby faticano a trovare spazi, faticano a spostarsi (perchè in Italia spesso se vuoi giocare a rugby e sei una ragazza, devi fare dei km… Spesso anche tanti. E’ una legge non scritta. Faticano a trovare soldi. Si perchè il rugby costa, forse meno di tante altre cose, ma costa.
Ecco perchè spesso mi piace osservare. In silenzio. Per apprezzare meglio. Perchè un rugbista sa cosa vuol dire fatica, uomo o donna che sia e non può che essere orgoglioso quando osserva altri rugbisti mettersi in gioco per dar sostanza ad un sogno.
Ecco queste sono le ragazze del rugby. E’ freddo stasera, in questo campo della bassa, ghiacciato così tanto che quasi quasi mi aspetto di veder spuntare una foca da un momento all’altro o chissà quale altra creatura tipica dell’Artico. Eppure le ragazze del rugby sono li. A Bologna come a Pesaro, a Treviso come a Benevento. A provare, a sbagliare, a fare fatica.
Sono piloni con le gonne. Libellule in un prato spesso strappato ai maschietti. Sono li ad appropriarsi di uno sport che, per metafora, non è mai stato per signorine. Eccole, le ragazze del rugby con i problemi di gestione quotidiana che può avere un club piccolo di uno sport di nicchia, dimenticato dagli sponsor. Sono una delle tante anime colorate del rugby in Italia. Qualcuno le chiama anche le “duty girls”, perchè non solo devono giocare, ma hanno anche il compito di portarsi i palloni o di lavarsi le maglie e soprattutto finanziare, quasi sempre da sole, la propria passione. Quella passione che le porta ad allenarsi in orari da lupi, a calpestare la brina sotto riflettori sbiaditi, a rotolarsi nel fango e trovarselo spesso fino dentro le orecchie.
Sono squadre atipiche, quelle del rugby femminile, e se hanno problemi di spogliatoio, è solo perché certi giorni l’acqua calda finisce presto. Tanto spesso sono fuori dell’immaginario maschile, ma non immaginatele forzatamente giunoniche, fareste davvero un grave errore. Meno che mai rozze. Quasi sempre abituate alla sorpresa di sguardi che le indagano. Sono giovani, carine, determinate: o forse sono solo le ragazze del rugby e tanto basta.
L’altra meta del cielo è quasi sempre una mescolanza di accenti e storie diverse. Ho conosciuto in certe squadre persone timidissime ed esili, che in partita avevano una grinta sorprendente. In campo non esistono uomini o donne, ma solo rugbisti. Li ho sempre immaginati come gli angeli i rugbisti sul campo, belli e privi di genere. Fuori, invece, ci sono rugbisti e rugbiste e le rugbiste credetemi conservano la propria femminilità.
Per giocare si inventano di tutto, anche un rugby con regole particolari, visto che non sempre è facile trovare 15 ragazze per giocare, si gioca a 7. No, non è il Sevens dei grandi tornei internazionali è rugby a sette contro sette, in un campo che è un fazzoletto perpendicolare a quello tradizionale: la linea di touche diventa quella di meta, le regole sono diverse da quelle del rugby a 15: le mischie sono tre contro tre e l’assenza di calci aumenta i duelli fisici. Il terzo tempo, invece, è identico. Le ragazze del rugby bevono meno, ma solitamente cucinano meglio e sorridono molto di più, poi salgono in macchina e dividono la benzina. Perchè sei donna e giochi a rugby, in Italia, ti fai dei km, spesso tanti ma non importa. In fondo, è bello così.

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