Di Matteo Mazzantini

Il Veneto è indubbiamente la regione italiana con il maggior numero di squadre di rugby, ma soprattutto è l’area dove il rugby è più radicato nel cuore della gente. Lo dico per aver vissuto in molte zone dell’Italia rugbystica ed aver conosciuto l’ambiente di Emilia, Lombardia,Toscana, Lazio e l’interland Aquilano, ma in nessuna ho trovato un vissuto ed una passione generalizzata e ben indirizzata come in Veneto. Quando a livello giovanile si scontrano le accademie U17 di Roma, Parma e Mogliano, spesso vincono quelli di Mogliano. Sembrerebbe che il nord-est sia un esempio da seguire… Non proprio.
Ogni anno il CIV “escogita una valida soluzione” per dare la possibilità alle varie squadre giovanili, U16 e U20, di disputare un campionato adeguato al livello tecnico delle varie formazioni. Il problema è che il campionato così definito d’ “Elite” Veneto è composto da 10 squadre per ogni categoria, ma di squadre di livello “elite” ce ne sono almeno 14-16 ogni stagione, di conseguenza alle 4-6 che non superano i barrage viene tolta la possibilità di crescere attraverso la pura competizione. Facendo un discorso di numeri, 4-6 compagini per categoria sono la bellezza di 160-200 giocatori, dai quali potrebbero tranquillamente “venir fuori” ragazzi utilissimi a tutto il movimento. Una enormità. Si parla tanto che il movimento giovanile nazionale non sforna campioni come in altre Nazioni, ma con soluzioni del genere come si può pensare che la situazione migliori? La federazione, indubbiamente, ha le sue colpe, potrebbe interessarsi di più nella gestione dei campionati minori, ma in questo caso le responsabilità maggiori ce le hanno i dirigenti del CIV e i presidenti. Sono loro che non fanno altro che insistere per  la riduzione dei costi a scapito della crescita sportiva.
Poi, come spesso accade, quando le cose non vanno sono tutti bravi a “rimpallare” le responsabilità. Quello che resta è che ogni anno, nel solo Veneto togliamo la possibilità a 200 giocatori di crescere e migliorarsi. Sì, perché la crescita dei giovani passa in gran parte dalla possibilità di confrontarsi in campo, in partite combattute. Il nostro gap, verso le nazioni più sviluppate, non è dovuto solo alla carenza di strutture o tecnici, ma proprio dalla mancanza di un adeguato vissuto rugbystico.
Quando giocavo nelle varie Nazionali giovanili, l’arma in più che avevano le altre squadre, era proprio l’abitudine a gestire certe situazioni di difficoltà tipiche della partita ed irriproducibili in allenamento. Perdevamo test-match per errori che, in maggior numero, erano di errata valutazione strategica, e non per grandi differenze di tecnica o voglia di fare.
Sono passati molti anni, e il numero dei nostri tesserati è aumentato notevolmente, avvicinandosi anche a quelle nazioni che una volta sembravano irraggiungibili. Ma i problemi in campo sono sempre gli stessi. Qualcosa non va, e quel qualcosa non può essere sempre attribuito solo alla federazione. E’ tutto il movimento che deve farsi un grosso esame di coscienza, dai tecnici, ai dirigenti, agli arbitri ed a tutti coloro  che frequentano il nostro mondo.
Non saprei dire quale sia la soluzione migliore, e penso anche che non possa essere nessuno ad imporla. Quello di cui sono sicuro è che il focus unico, per chi gestisce i campionati ad ogni livello, deve essere la ricerca della crescita sportiva dei ragazzi: come prima conseguenza le squadre miglioreranno i risultati, ci saranno spettacoli sportivi più belli e inevitabilmente le società potranno gettare una base ancor più solida per attirare l’attenzione di nuovi sponsor, che infine sono il motore dello sport in Italia.
Sembra un concetto così facile, che è quasi incredibile che non sia ancora stato compreso.