Ho le mani fredde. Non è questione di temperatura, siamo a giugno e pure qui a Berlino il sole tende a scaldare con una certa naturalezza. È tensione, credo. Non credevo di poter provare certe emozioni qualche tempo fa, non credevo mi sarei trovato a tremare o a sentire le palpitazioni pochi minuti prima di arrivare al dunque.

O almeno, in partita non mi era mai successo.

No, aspetta, le mani fredde in partita ce le ho avute eccome, qui in Germania, come ho potuto dimenticarmene? Ero al debutto. Ci posso stare, noi australiani non siamo famosi per essere bravi a farci la valigia quando cambiamo di emisfero, ma mica potevo immaginare che qui facesse così freddo. E mica potevo immaginare che si potesse giocare sotto la neve. Il mio presidente, quel giorno, mi consigliò di mettere le mani per qualche secondo sotto quella coltre bianca. Pensavo mi prendesse in giro, feci finta di nulla. Vidi gli altri miei compagni di squadra con le mani sotterrate e li presi per matti. Poi entrammo in campo e mi resi conto che quell’idea non era mica tanto balzana. Alcuni polpastrelli cambiarono colore solamente solo dopo più di qualche minuto sotto l’acqua bollente. Li vedevo, ma li vedevo come si può osservare il bastoncino di un gelato a lavoro ultimato. Mi ci volle un po’ per recuperare la sensibilità delle falangi, un bel po’. Tanto che, dopo qualche attimo di attesa, decisero di sostituirmi in attesa del mio rientro. Parlarono all’arbitro di ferita, ma non rientrai più. Da quel giorno, in caso di gelo, le mie mani sapete già dove andranno a finire. Meglio non rischiare. Anche perché un mediano di mischia negli ottanta minuti di gioco le mani tende ad usarle con una certa frequenza.

Ve lo giuro, una cosa del genere non l’avevo mai vista. Ma in fondo la responsabilità era ed è mia, sono io quello che ha deciso di cambiare aria per un po’. Avevo appena vinto il campionato provinciale nel Queensland, in Australia. Fu un torneo meraviglioso, culminato con dodici mete nella finale contro Gold Coast. Eravamo una signora squadra: c’erano Digby Ioane e Ben Lucas, per esempio. Io non ero il titolare, davanti a me c’era Nic Berry, che ha giocato per anni in Europa e ora è diventato arbitro. Dietro di lui c’ero io, Sean Armstrong. Non sono un malvagio mediano di mischia, ma a vent’anni capii che da quelle parti non avrei potuto sopravvivere di solo rugby. Presi al volo l’opportunità di andare in Germania. Certo, lasciare l’Australia per cercare la fortuna ovale in Germania può sembrare una battuta parecchio divertente o un discorso parecchio stralunato, me ne rendo conto. Ma avevo bisogno di vedere il mondo, di fare una esperienza forte e non scontata. Andai a giocare nell’Heidelberger RK, una delle squadre più forti del campionato, poi a fine stagione tornai a sistemare due o tre cose a casa mia. Mi richiamarono qualche mese dopo: avrei affiancato l’attività di giocatore a quella di Responsabile della Wild Rugby Accademy, ossia dell’accademia rugbistica voluta dal nostro presidente. Herr Wild non è uno sprovveduto, ve l’assicuro, è uno che ama il rugby e sa quello che vuole. Qualche anno più tardi si comprerà pure lo Stade Français. Di sicuro, senza di lui, non potrei essere qui. Forse sarei in giro per il mondo, forse a strappare contratti stagionali o forse a capire se è vero che ci sono Paesi grandi come un’unghia in cui ci si palla ovale all’indietro. E non avrei conosciuto Tilla, la mia ragazza. Giocatrice di rugby pure lei, ha provato a qualificarsi con la Nazionale Seven alle Olimpiadi di Rio dell’anno prossimo. Io ho debuttato con la Mannschaft nel 2011. Siamo un bel gruppo, in forte crescita, un giorno ci toglieremo più di qualche soddisfazione. Certo, mai avrei detto qualche anno fa che si giocasse a rugby in posti chiamati Moldova o Ucraina, che i georgiani avessero una mischia del genere o che in Spagna e Polonia giochino così tanti francesi, ma credo che non sia troppo comune neppure vedere un australiano giocare a rugby in una cittadina universitaria di 160000 anime.

Un australiano oggi eccezionalmente senza pantaloncini e maglietta, lasciati in armadio.

No, nessuna giocata da chiamare, niente calcetti a scavalcare.

Porto uno smoking, un papillon e mi sento un po’ a disagio. Non credevo di poter provare certe emozioni qualche tempo fa, non credevo mi sarei trovato a tremare o a sentire le palpitazioni pochi minuti prima di arrivare al dunque. O almeno, in partita non mi era mai successo. Nessuna palla ovale all’orizzonte. Oggi, 24 giugno del 2015, sono uno dei 138 ospiti d’onore in occasione della visita della Regina Elisabetta e di Filippo di Edimburgo a Berlino. Per meriti sportivi, mi hanno detto. Ve lo giuro, credevo fosse uno scherzo.

Dovrò tendere la mano a tutti e due, stare attento al protocollo e sorridere alle eventuali uscite del Principe Consorte, a volte più irriverenti e improvvise di una terza linea che sbuca dalla chiusa.

Spero non si accorgano delle mani fredde. In caso contrario, sarà dura spiegar loro che non ho trovato nessun mucchio di neve nel quale scaldarle.

Sorriderebbero come da protocollo, poi passerebbero oltre.

Senza forse capire che, da quel mucchio di neve, è nata una storia che continua a tenermi al caldo il cuore.

La mia storia, quella di Sean Armstrong.

E ora datemi una palla ovale, bitte.