1010854_4881151927211_155800182_nCi risiamo. Dovrei evitare di viaggiare in treno per l’Italia alla ricerca di chissà quale chimera ovale. Dovrei leggermi un bel libro mentre lo faccio, o forse solo semplicemente guardare le gambe delle mia vicina, che oggi valgono decisamente il prezzo del biglieto. Invece no, ho il brutto vizio di tirar fuori pensieri che fanno innervosire la metà delle persone che io conosco ed in quella metà mi ci metto anche io. E’ da un po’ di tempo che non aggiorno questa rubrica, giusto una pausa per capire dove sta andando e dove mi porterà (o forse no…) il rugby femminile che vivo con tanta, forse pure un po’ troppa, passione. Mi sono preso un po’ di tempo per studiare, un altro po’ per analizzare e molto per capire. Così adesso mi sono fatto un’idea e so già che a molti di voi, quest’idea non piacerà per nulla. “Scomodo Cirri!”, me lo dice sempre Giorgia, una delle mie giocatrici con il sorriso più naturale e disarmante del mondo. Scomodo… Una parola alla quale ho finito per affezionarmi. Durante l’estate ho avuto un po’ di giorni a disposizione e come tutti i gli amanti (o i fissati, come dice mia madre) del rugby ho deciso di impiegarlo per migliorare me stesso e le mie abilità, perchè ho sentito la necessità di offrire qualcosa di nuovo e di migliore alle mie ragazze, perchè credo che anche dove non c’è professionismo ci debba essere professionalità. Ho cominciato a seguire diversi campionati in giro per il mondo, soprattutto la Premiership Inglese e le varie competizioni All Ireland, con qualche puntatina in Francia e Nuova Zelanda e sorprendentemente ho visto aprirsi una finestra molto grande su mondi così diversi e così lontani da noi. Sono rimasto molto sorpreso (e positivamente colpito) dalle abilità delle ragazze, grande fisicità in Inghilterra, buonissima gestione del gioco in Irlanda, ritmi alti in Nuova Zelanda e la Francia che forse è la somma di tutte queste abilità. Piuttosto affascinato dal livello del gioco di questi campionati non ho potuto fare a meno di pormi delle domande e di cercare risposte più o meno convincenti nella miriade di persone che giocano ed amano questo gioco che ho la fortuna di conoscere. Mi so chiesto in tutto questo noi in Italia, dove stiamo? Si parla di rugby femminile ed è sempre un tourbillon di emozioni, difficoltà, eroine quasi senza tempo, ma nessuno mai parla (o lo fanno davvero in pochi) degli aspetti tecnici del nostro rugby in rosa. E’ scomodo! Qualcuno dice che ancora non ce lo possiamo permettere. Beh… Sapete una cosa? A me piace essere scomodo e tante grazie Giorgia! Ieri sera dopo che la pessima giornata mi ha regalato un’insonnia di quelle da manuale, mi è casualmente arrivata la registrazione della prima partita della Premiership Inglese tra Richmond e Worcester della settimana scorsa. Dopo aver osservato i primi minuti di gioco, mi sono sorpreso nel notare il livello di abilità mostrato da entrambe le squadre: i calci, la gestione del gioco e le abilità tecniche sembravano la cosa più naturale del giorno. Inoltre, le giocatrici di entrambe le squadre hanno dimostrato ampiamente la capacità di creare un gioco strutturato, leggere le difese e creare spazi di gioco, sicuramente una competenza di base lontanissima da quanto si vede sui nostri campi. Ho pensato: “beh sicuramente il livello di eccellenza deriva dal fatto che queste ragazze sono delle professioniste”. Sbagliato! Nessuna delle 30 ragazze in campo prende un centesimo per giocare, come da noi. E allora? Dove sta la differenza? Il manager di Worcester che ha risposto alle mia domande (via mail) mi ha scritto una cosa che è disarmante nella sua semplicità: “Noi alle ragazze richiediamo professionalità. Giocare qui da noi non è un obbligo per nessuno, ma chi sceglie di farlo lo fa secondo le nostre regole”. Regole, una parola che già a molti fa storcere il naso, in Italia si gioca per divertirsi e spesso tanto basta. Ma quali saranno mai queste regole? “Qui si lavora sempre per il rugby, una giocatrice sa che dall’inizio alla fine della stagione insieme al lavoro o lo studio il suo impegno primario è il rugby. Quando si gioca è necessario comportarsi di conseguenza, quando non gioca, è necessario allenarsi per sviluppare le competenze e le abilità necessarie al gioco. Le ragazze si trovano sul campo solo due volte alla settimana, ma in realtà si allenano tutti i giorni” Sono tornato a pensare alle mie ragazze, o tante delle altre giocatrici che in questi anni ho incontrato in giro per i campi. Vorrei chiedere loro quante sarebbero disposte a lavorare così per crescere e per far crescere il livello del rugby femminile in Italia. Magari sbaglio ma la risposta è poche… Decisamente poche. Non ci può essere alcun dubbio che – rispetto a giocatrici di generazioni precedenti – le atlete di oggi sono più consapevoli, ma la domanda è se sono diventate anche più forti. Un articolo che ho letto qualche giorno fa riportava una bella citazione: “La sostenibilità di un campionato, passa anche dalla qualità dei suoi protagonisti e dallo spettacolo sportivo che sa offrire”, se questo è vero io penso che la rugbista di oggi (forse suo malgrado) debba diventare più forte, più veloce e più in forma di chi è venuto prima. E’ necessario migliorare molte delle competenze generali, come la touche, la difesa, il lavoro di squadra e la gestione del pallone da parte degli avanti e soprattutto il gioco al piede. Credo sia necessario cominciare a parlare di nutrizione, lavoro muscolare, credo siano necessarie grandi competenze nel recupero e nella riabilitazione, così come va migliorato, per tutte, non solo per le atlete in odore di nazionale il fitness aerobico. Ci sono troppe atlete in giro per i campi d’Italia che ancora atlete non sono. Questa estate lavorando con l’accademia di Munster mi hanno insegnato una cosa: “il livello del gioco cresce quando crescono il ritmo e l’intensità. Questo è un contributo fondamentale per l’aumento della pressione difensiva e se funziona è tale da vanificare tutti i benefici dell’attacco, che naturalmente dovrà aumentare a sua volta il ritmo per superare le difese sempre più presenti e strutturate”. Un gioco a somma zero, se volete. La lacerazione più profonda tra il nostro rugby e quello di altre realtà è proprio la cattiva interpretazione del concetto di volontariato. Il nostro tessuto sociale del rugby, è costruito attorno ai volontari che puliscono fuori gli spogliatoi, preparano i terzi tempi e molto altro, questo in molti casi, ma non sempre, mina alla base l’idea di una professionalità pur in assenza di professionismo. A livello globale, il rugby nella sua forma più pura è un gioco gioiosamente amatoriale e può anche rimanere tale. Tante giocatrici saranno in grado di raccontare storie di bei momenti vissuti dentro e fuori dal campo nel nome dell’amore di questo gioco gioco e dell’amore per la cultura del gioco. Però, si perchè c’è sempre un però, questo non contribuisce quasi mai a far crescere il livello del gioco stesso. La maggior parte dei rugbisti ha la capacità di distinguere chiaramente il rugby amatoriale da quello professionale e pensa che le due anime possano tranquillamente coesistere, Peccato che questa co-esistenza in Italia sia niente più che utopia. Da noi, di fatto, non esiste professionismo, o quasi, nemmeno nel rugby maschile. E qui che allora ogni giocatrice può fare la differenza perchè il rugby mondiale (specialmente il XV) è ad un bivio e l’unica soluzione possibile è quella della professionalità in assenza di professionismo. Finchè le nostre ragazze non saranno in grado di mettere il gioco e quello che richiede al primo posto (subito dopo lavoro e studio) il livello del nostro rugby rimarrà lontanissimo da quello delle nazioni leader. A volte mi viene da pensare che alle ragazze in fondo vada bene così, ma si sa, che io sono scomodo e probabilmente un gran rompiscatole!

Lorenzo Cirri

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