“Ehi amico, scusa un attimo!”

“Si, che c’è ragazzi?”

“Scusa, ti abbiamo visto passare.. non è che per caso sai giocare a rugby?”

“Si, un po’..perché?”

Ci manca una riserva in seconda linea e non sappiamo più dove sbattere la testa! Non ti preoccupare, non dovrai giocare molto.”

“Mmmm..ok, guardo solo se le partite coincidono con quelle della mia squadra e arrivo!”

Queen Kapiolani Park, a un tiro di schioppo da Waikiki Beach, Hawaii, settembre 2012. Si gioca il World Vintage Rugby Carnival, una specie di Mondiale di rugby per le categorie Old. No no oh, niente risatine, qui parlano i curricula e c’è gente che ha alzato la Coppa del Mondo qualche anno fa. È un torneo in cui il montepremi conta, ma è fondamentale anche sapersi divertire e mettersi in gioco, magari dimenticando qualche scampolo di gloria passata. Tra le varie squadre partecipanti figurano i Keep Walking Rugby, manipolo di brasiliani un bel po’ fuori di testa ma appassionati e bravi quanto basta per esserci. Si rendono conto di essere un po’ corti tra le riserve e chiedono una mano al primo ragazzone che passa. Ne nasce il dialogo riportato qua sopra.

O meglio, parole e musica sono di chi scrive.

Il soggetto, però è tutto loro.

Anche il ragazzone in questione è lì per il torneo. Biondo, alto, dinoccolato, fisicamente sembra una discreta seconda linea a questi livelli.

Sembra, perché appena lo mettono in campo si rendono conto che quello lì, in seconda linea, c’è stato forse quando faceva il chierichetto nella sua parrocchia. Fuori ritmo, fuori fase, fuori tutto. Dura poco, appena possono lo mettono a centro, così che faccia meno danni possibili.

Notano che lì dietro le cose vanno molto meglio.

E notano che, appena l’arbitro fischia, quel ragazzone è attorniato da gente che chiede foto e/o autografi. No, non sono mica là per loro, sono là per lui.

“Ma chi è questo?”

Il biondo è lì per dare una mano agli ACT Veterans Rugby, squadra australiana il cui stemma, un cavallo selvatico, ricorda molto quello dei Brumbies di Canberra.

Non è che lo ricorda, è proprio quello dello stemma.

E il ragazzone va per i 38 anni e si chiama Stephen Larkham.

Che coincidenza, proprio come il numero 10 dell’Australia.

Lo guardano bene.

No, non è “proprio come”.

È lui.

Sarà la mancanza del leggendario caschetto, sarà che magari gli anni passano per tutti, sta di fatto che i nostri amici brasiliani hanno fatto giocare in seconda linea uno che da apertura ha vinto un Mondiale e quasi si è ripetuto 4 anni dopo. Come prendere Cristiano Ronaldo che passeggia per Madrid e chiedergli se può farsi 5 minuti in porta nella vostra partitella del sabato pomeriggio. Paragone forzatino eh, ma potrebbe starci. Sta di fatto che lui accetta senza pensarci nemmeno troppo. Forse perché l’ultima volta che qualcuno gli ha chiesto di cambiarsi di ruolo per lui è iniziata una nuova carriera. Forse perché l’ultima volta che qualcuno gli ha fatto notare di non essere adatto al nuovo ruolo non è che abbia detto tante parole. Ha solo fatto menare le gambe, e scusate se è poco.

Ne è uscito un giocatore nuovo, visto solo raramente in passato. Ne è uscito un rugby nuovo, questo di sicuro mai visto: d’attacco, elusivo, spettacolare, fatto apposta per delle linee di trequarti come poche volte se ne sono viste in giro per il mondo. Da questo gioco (ma non solo) è arrivata una Coppa del Mondo, e solo un certo Jonny Wilkinson che si è messo a fare il fenomeno e una squadra di avanzi di galera solo per caso vestita di bianco non hanno permesso il bis. Attenzione però: questa non è la storia del carneade assoluto che sbanca tutto e porta a casa titoli su titoli per poi sparire nel nulla. Stephen Larkham nel 1997 è già un numero 15 di altissimo livello, titolare quasi inamovibile nei Brumbies e in Nazionale a poco più di un anno dal debutto nel rugby che conta. Per dire, con i Wallabies riesce quasi subito a scalzare dal ruolo l’infortunato Matt Burke, estremo dei Waratahs, uno dei più forti degli ultimi 30 anni a livello mondiale, piede glaciale e senso della posizione divino. Ecco, la maglia col numero 15 Burke non la vedrà per un po’, anche da sano. “Paperoga”, come lo chiamerà poi Vittorio Munari per via di quello sguardo solamente all’apparenza assente e distratto, quasi proiettato in un’altra dimensione, è molto diverso da Burke: ha gambe lunghissime e un fisico all’apparenza fragile, esile, la corsa non sembra nemmeno un granché. Solo che è elusivo, quasi irridente senza alcuna volontà denigratoria, non riesci mai a placcarlo senza fargli far strada. Va sempre oltre. Ecco, magari il calcio non è la specialità della casa, ma se la butti sul contrattacco Larkham da lì non lo puoi muovere.

In ottobre segna due mete a Murrayfield, l’Australia vince bene contro gli scozzesi ma Rod MacQueen, ct australiano, ha più di qualche grattacapo: gli All Blacks al momento sono un’altra cosa, il Sudafrica di Nick Mallett fa paura. L’Australia, tra le squadre dell’emisfero sud, è quella che ha qualche intoppo in più, soprattutto in mediana. No, il problema non è George Gregan, numero 9, avercene di gente con quel carisma e quel talento. Il problema è lì a fianco, non ci sono aperture di livello straordinario in lizza. David Knox dei Brumbies, visto anche in Italia a Padova e Livorno, è un numero 10 sontuoso, soprattutto alla mano, ma ha ormai 35 anni e difficilmente arriverà integro al Mondiale; c’è Scott Bowen, apertura dei Waratahs già vista in giallo e verde, ma non garantisce la qualità di altri; ci sarebbe Elton Flatley, ventenne in rampa di lancio con i Reds, può giocare anche centro, ma nemmeno lui fa più di tanto breccia nel cuore del coach. Non nella stanza dei bottoni, almeno.

A MacQueen, però, viene un’illuminazione.

Dietro l’Australia ha una batteria di trequarti che ha pochi eguali in giro per il mondo: ci sono ali come Ben Tune e Joe Roff, centri ben assortiti come quelli dei Reds, Danie Herbert e Tim Horan, proveniente dal Rugby League (a sua volta già provato a 10 ma senza prodigi). C’è Stirling Mortlock, centro dei Brumbies, Chris Latham ala dei Reds, due giovani già validi a livello internazionale. Ci sono Larkham e Burke dietro, c’è Rod Kafer, c’è Little e ci fermiamo qui, ma si potrebbe continuare per un po’. MacQueen si trova davanti ad un dilemma del genere: “Metto un 10 ortodosso, magari non di altissimo livello, ma che faccia il suo o metto un uomo in grado di far girare a tutta questa Santa Barbara che ho dietro?”

Bravi, la seconda.

E promuove Larkham numero 10.

“Ma come Larkham apertura? Ma è senza piedi!”

“Ma come lui? Nel ruolo che fu di Lynagh e Knox, due esteti in cabina di regia?”

Si, ma è anche il ruolo in cui diede spettacolo Mark Ella, uno dei più feroci attaccanti che si siano mai visti in cabina di regia.

MacQueen ha deciso.

D’altronde conosce bene il ragazzo, visto che l’ha fatto debuttare lui con i Brumbies nel 1996. E chiederà al suo sostituto sulla panchina di Canberra di provarlo un po’ in quella posizione prima della Coppa del Mondo. Il suo “erede” ascolta il consiglio, abbassa gli occhi a mandorla ereditati dalla madre e annota il tutto. Tutto questo gli tornerà utile più avanti, visto che anche lui sarà ct dei Wallabies. Si chiama Eddie Jones ed è uno che, nel rugby che conta, ha fatto due passi più di tanti altri.

Larkham debutta con la maglia numero 10 il 6 giugno del 1998 contro l’Inghilterra, segna 3 mete, finisce 76 a 0. D’accordo, è la prima Inghilterra del cosiddetto Tour of Hell, la peggiore selezione inglese dai tempi del Boston Tea Party. Ma è gioco, partita e incontro per MacQueen. Da qui in poi il buon Stephen collezionerà 88 test col numero 10 sulle spalle e 135 punti, quasi tutte mete. Di sostituti, fino al 2007, se non strettamente temporanei, non se ne parla. Il ct australiano aveva previsto tutto, uno così in mediana non lo si era mai visto: gioca a ridosso della linea di difesa avversaria e ha tempi fulminei di rilascio della palla. In più è sgusciante, è magro ed esile, sembra che l’hai placcato e invece è oltre. E quando passa si porta dietro tutta la sua linea di trequarti, più qualche terza linea. Poi ha solo l’imbarazzo della scelta nel gioco rotto: la può tenere o passare, ma te lo fa capire sempre quando per te è troppo tardi. A questi livelli diventa quasi illegale.

Migliora anche nel calcio tattico, ma non dalla piazzola. Stephen infatti ha problemi di vista e deve essere operato. Niente di grave eh, ma i pali non li vede benissimo. Per molti un numero 10 così sarebbe un problema, non per MacQueen, che rispolvera Matt Burke ad estremo, e con uno così dietro sei a posto anche quando devi indicare all’arbitro che hai bisogno dei tre punti.

Con Larkham a numero 10 l’Australia trova il suo equilibrio: veloce nei raggruppamenti, palla fuori a Gregan e poi via con la cavalleria. Certo, gli All Blacks di Mehrtens al momento sono più forti, ma gli scontri al Tri Nations del 1998 sono combattuti: ad Auckland 9 piazzati di Mehrtens scavano il solco, a Sidney è Burke a rispondere con 7 calci tra i pali. Il torneo lo vincono i tuttineri, ma i Wallabies sono pronti per la Coppa del Mondo in Europa: Romania e Stati Uniti le buscano di santa ragione, l’Irlanda tiene botta un po’ di più, ma perde 23 a 3 a Lansdowne Road. Ai quarti di finale tocca il Galles al Millennium Stadium. Neil Jenkins e compagni fanno soffrire per più di un’ora l’Australia, ma finisce 24 a 9 e si va in semifinale contro il Sudafrica di Nick Mallett. È uno scontro durissimo, difese asfissianti e nei breakdown è battaglia. Larkham prende una legnata tremenda alla gamba destra, ma resta in campo zoppicante. A sfidarsi sono i calciatori, da una parte Burke, dall’altra Jannie de Beer, apertura di scuola Cheetahs, che ai quarti ha messo a segno 5 drop contro l’Inghilterra. De Beer è quanto di più diverso ci possa essere da Larkham. È praticamente la sua completa antitesi: gioca dietro la linea, usa moltissimo il piede tattico, molte volte sembra solamente passare la palla. Ma non ne sbaglia una dalla piazzola. Segna allo scadere il 18 pari che vale i supplementari, poi porta i vantaggio i suoi con un altro piazzato. Burke pareggia subito, poi Larkham ha un lampo di genio. Uno dei tanti direte.

Certo, ma se avete non dico la nebbia, ma almeno un po’ di foschia davanti agli occhi, un drop senza vantaggio non lo rischiate. A meno che non vediate oltre quello che vedono gli altri.

48 metri di gittata.

Come un drop?

Avete letto bene.

Pali centrati.

Alcuni anni dopo una nota pubblicità australiana ironizzerà sul tentativo di Larkham e sulle sue (a detta di molti) proverbialmente scarse capacità balistiche. Si vedono, tra gli altri, Burke e coach MacQueen gridare “Don’t kick it!”, “Non calciarlo”. La pubblicità diceva “Rugby: anything can happen”. Larkham ci ha sempre riso tanto su, anche e soprattutto quando ha visto la palla entrare.

In finale arriva la Francia, che a sorpresa ha demolito gli All Blacks con un secondo tempo mostruoso. È una squadra zeppa di talento: su tutti spiccano il centro N’Tamack, l’ala Dominici, l’apertura Lamaison e la terza linea Olivier Magne, un’iradiddio in campo aperto. La partita è molto equilibrata, si sfidano ancora i calciatori. La Francia ha consumato tantissime energie in una delle più leggendarie partite della sua storia, la lancetta vira inesorabilmente sulla riserva. Poi è proprio Magne a infortunarsi e a dover abbandonare il campo, lasciando i francesi quasi completamente in panne. All’ora di gioco il risultato vede avanti i Wallabies per 18 a 12, ma basta poco per rompere gli equilibri. Due mete, Ben Tune e Owen Finnegan. È vittoria, costruita su un attacco imprendibile e su una difesa mostruosa, capace di subire una sola meta in tutto il torneo.

L’Australia di Rod MacQueen vincerà il Tri Nations l’anno successivo, bissando il titolo dell’anno prima. E proprio nel 2000 si giocherà forse uno degli incontri più emozionanti nella storia della palla ovale: a Sidney gli All Blacks dopo 8 minuti sono avanti per 24 a 0, poi Larkham si inventa un buco per la prima meta di Mortlock. Ne viene fuori un’altra partita: i Wallabies vanno avanti 27 a 24, sembrano poter vincere, ma una meta di Jonah Lomu allo scadere ribalta il risultato. Lo chiameranno “The Test Match made in Heaven”, e credo non servano traduzioni. Il 2001 è l’anno dell’avvicendamento sulla panchina australiana: MacQueen cede il testimone dopo la serie vinta contro i Lions, arriva Eddie Jones. Il nuovo coach, che aveva guidato l’Australia A alla clamorosa vittoria contro i Lions, non si sogna nemmeno di toccare la mediana Gregan-Larkham, vera manna dal cielo, ma costruisce attorno a loro, se possibile, una squadra ancora più forte: ci sono Flatley e Mortlock centri, c’è ancora Burke, in terza arrivano George Smith e Phil Waugh, due mostri nei raggruppamenti. Per il triangolo allargato Jones pesca a piene mani dal Rugby League e si porta a casa due ali come Wendell Sailor e Lote Tuqiri, che sono per potenza e garretti due armi a questo livello non convenzionali, e un tuttofare come Mat Rogers, che piazza e può giocare, e bene, in qualsiasi ruolo della linea arretrata. Aggiungete a tutto questo un giovane fenomeno come Matt Giteau in panca e fate voi i raffronti con la squadra del 1999. Nel girone battono il record di punti segnati in un match, 142, contro la Namibia. Ne segnano 90 alla Romania, faticano di più contro Argentina e Irlanda, ma passano per primi. Ai quarti la Scozia regge per un tempo, poi Mortlock accende il turbo e ciao a tutti. In semifinale ci sono gli All Blacks di Carlos Spencer, una delle squadre più divertenti del Mondiale, prolifica e spettacolare, ma è proprio il numero 10 maori a servire il migliore degli assist per i Wallabies: passaggio scriteriato a scavalcare nei 22 australiani, Mortlock salta, afferra e corre. Poi sono 70 minuti di placcaggi e sacrificio, con Flatley che con piede e piazzola tiene distanti i tuttineri e timbra la finale contro l’Inghilterra.

Stop.

Dawson fuori, palla a Wilkinson, drop.

Dentro.

È finita così, lo sappiamo tutti.

Ma non è qui che vogliamo arrivare.

Larkham in finale propizia la meta di Tuqiri con una “candela” meravigliosa, ma davanti si trova la Dads’ Army, l’esercito dei padri, che stronca sul nascere ogni raggruppamento, sporca ogni pallone e mette i bastoni tra le ruote al gioco australiano. E vincono, meritando, perché nella pioggia e nel fango vince chi sa scavare meglio trincee e gallerie.

La Coppa del Mondo 2003 segna forse la fine della parabola ascendente per Stephen Larkham. Certo, vincerà con i Brumbies l’edizione 2004 del Super 12, la seconda per la franchigia di Canberra, ma il fisico del numero 10 australiano comincia a mostrare segni di deterioramento. Arrivano infortuni su infortuni, che un prezzo per quelle gambe chilometriche bisogna pur pagarlo a questi livelli. E prestazioni buone, ma non più super, anche della Nazionale. Il ct Connolly lo proverà anche primo centro, con Rogers apertura e Giteau mediano di mischia. Contro l’Italia nel 2006, tra l’altro. Con una corsa delle sue manda Rogers, incredulo o quasi, in mezzo ai pali. Ecco, solo in Australia, con quelle generazioni di trequarti e quella intercambiabilità di ruoli quasi irritante, ti puoi permettere di mettere Larkham centro. Altrove sarebbe la più clamorosa bestemmia mai udita in una cattedrale. E infatti nel 2007 tornerà numero 10, fino al Mondiale, al termine del quale ha già annunciato ci sarà l’addio alla maglia della Nazionale. Verrà in Europa, sembra abbia già firmato con Edimburgo. Nel debutto contro il Giappone, però, il ginocchio fa crac per l’ennesima volta. Vuole rientrare in campo nella fase finale, ma l’Australia esce ai quarti.

Ancora contro l’Inghilterra, ancora per mano (e piede) di Wilkinson.

Alla fine non verrà nemmeno in Europa, nonostante anche Leeds e Dragons avessero promesso ponti d’oro. Chiude in Giappone con l’agonismo, poi se ne andrà in giro per il mondo ad allenare i Brumbies e i trequarti Wallabies, lasciando una discreta eredità in Mat Toomua, giocatore mai realmente compiuto e che ti spieghi solo se hai visto giocare Larkham. Passerà pure per le Hawaii, a giocare per beneficenza con gli ACT Veterans o con un manipolo di pazzi brasiliani che non lo riconoscono e lo vogliono seconda linea. E senza farsi tante troppe domande, né a reclamare una lesa maestà, che quella appartiene ad altri mondi. Che nel rugby sì ci sono i ruoli, ma ogni tanto se hai i mezzi giusti e le palle giuste puoi anche inventarti una carriera migliore da un’altra parte, anche senza piedi. Casomai segni un drop da 48 metri. Casomai vinci un Mondiale e quasi ne porti a casa un altro. Casomai ti dedicano una tribuna insieme a George Gregan nonostante siate entrambi ancora vivi. Casomai ti fai due birre con un po’ di brasiliani dopo una partita, magari senza capire niente di quel che stanno dicendo, forse senza che loro abbiano capito chi tu sia, a un tiro di schioppo da da Waikiki Beach.
“Grazie di tutto ragazzi, delle birre e della partita!”

“Grazie a te campione per le foto, e scusa se non ti abbiamo riconosciuto subito!”

Due anni dopo i brasiliani ricambieranno la visita in occasione dell’edizione successiva del torneo. Giocano le loro partite e, con discreto spirito di avventura, girano il Paese.

Larkham li ospita a Canberra.

I ruoli si invertono.

Larkham, come tutte le altre volte in cui ha dovuto cambiar ruolo, non fa una piega.

Keep Walking, Rugby, Keep Walking, Paperoga.