Sapete, i giornalisti inglesi sono impagabili. Sanno essere sagaci e sadici come nessuno, soprattutto quando si tratta di inveire contro qualcuno in apparente difficoltà. Si travestono, scavano nel solco e nelle vite dei loro bersagli, poi ci ridono su, che un po’ di British Humour ha sempre fatto bene a tutti. O quasi. I giornalisti sportivi, se vogliamo dirla tutta, sono forse quelli che scavano di più. E, nel giugno del 1998 si sfregano ripetutamente le mani quando vedono la nazionale inglese di rugby partire per un tour nell’Emisfero Sud. Sono già pronti a mettere qualcuno sulla graticola, i nomi sui taccuini sono parecchi. Clive Woodward, per esempio. È il commissario tecnico da un anno e rischia già di diventare cibo per gli avvoltoi. Ex seconda linea alta e spelacchiata, mai minimamente accostato ai Monty Python per simpatia, ma profondo conoscitore del gioco. È stato chiamato ad allenare il XV della Nazionale che ha inventato il Rugby, ma sembra proprio essere capitato nel periodo storico meno indicato, se si vuole essere protagonisti ovali. Capita, se nel 1998 si è all’alba del professionismo e le squadre tendono a tenersi stretti i giocatori più forti del lotto. No no, col cavolo, ve li abbiamo dati per il 5 Nazioni, li rivedete a novembre. E a noi, chi ci pensa? Woodward qualche campione lo riesce pure ad elemosinare, ma la coperta è corta e piena di buchi, sicché convoca, oltre a qualche eroe decorato, molti carneadi e qualche ragazzino di belle speranze. Il debutto è previsto per il 6 giugno a Brisbane contro i Wallabies di Rod MacQueen. Gli australiani, per l’occasione, mettono in cabina di regia l’estremo dei Brumbies, una anima lunga di 190 centimetri, miope, mai famoso per il suo gioco al piede, ma che sembra fatto apposta per lanciare una Santa Barbara di trequarti difficilmente riscontrabile altrove. Si chiama Stephen Larkham, da quella notte la maglia numero 10 diventerà una seconda pelle. Segna tre mete, ma questo vale per le statistiche. Di fatto, quella sera, si è deciso chi farà la voce grossa alla Coppa del Mondo del 1999. E no, non saranno gli inglesi, sommersi da 76 punti senza la possibilità di schiodarsi dallo zero sul tabellone. Da casa, alla fine del primo incontro del tour, qualcuno tra i giornalisti annota già la definizione “The Tour of Hell”. Zelante, affrettato forse, ma molto aderente alla realtà: 88 punti fatti, 328 subiti. 0 vittorie, 7 sconfitte. 28 mete subite, solo 4 fatte. Non ne va dritta una. Ci si mette pure la compagnia di bandiera, che verga in una famosa vignetta un nazionale inglese ammaccato e di spalle al check-in e una didascalia tragicamente efficace: “Thinking of going home?”. È una tournée devastante, una serie di colpi che metterebbe fuori combattimento chiunque. Per referenze chiedere a Georges Coste. Chiunque, ma non Woodward, che sarà pure l’inglese meno di spirito dai tempi di Cromwell, ma da fine analitico qual è riesce a tirar fuori col contagocce due o tre cosette mica da ridere. Per esempio, forse ha trovato un discreto mediano di apertura in grado di far rifiatare Grayson. Quel diavolo biondo là dietro poi, tale Lewsey, non è mica male come utility back. E la prima linea, con Rowntree e Vickery, ha trovato un paio di piloni belli affidabili. Non c’è molto altro, diciamo la verità, ma la formazione che a novembre si gioca le qualificazioni per la Coppa del Mondo recupera qualche senatore e batte Olanda e Italia. certo, ci sarebbero da registrare un arbitraggio scandaloso che nega all’ultima grande Italia di Coste una vittoria meritatissima e un Woodward che rischia seriamente più di qualche ammaccatura, visto che Carlo Bruzzone, indimenticato decano dei giornalisti italiani ed ex seconda linea di valore, voleva fargli pagare un commento un po’ troppo altezzoso sul match. Ma la squadra non è malvagia. Certo, la quadra ancora del tutto non c’è, ma nel 1999 arriva il secondo posto al Cinque Nazioni e un discreto inizio di Coppa del Mondo. Gli inglesi perdono contro gli All Blacks nel match per il primo posto nel girone, ma si riscattano contro Figi. Poi, però, come nel 1995, incocciano nella più clamorosa prestazione di un singolo del torneo. Ma se nel 1995 una cosa del genere, con Jonah Lomu in campo, te la potevi pure aspettare, nel 1999 a camminare sulle acque per soli 80 minuti è un boero biondo, dal colorito lattiginoso e con le ginocchia di cristallo. Jannie de Beer, nome su cui rimuginerebbe pure Don Abbondio, butta tra i pali 5 drop e mette le ali agli Springboks.

No, non è ancora il momento.

E però la squadra cresce, e con essa alcune certezze del commissario tecnico. Innanzitutto, e qui a dargli una mano è un’imboscata di alcuni giornalisti, azzecca il capitano. La fascia infatti finisce nelle mani e sul braccio di Martin Johnson, seconda linea dei Leicester Tigers. Johnson non ha molte parole nel portafoglio, ma ha una devastante capacità di farsi seguire in campo e una inesauribile fame di vittoria. In Federazione stanno ancora ringraziando lady Kay, prima fidanzata e poi moglie della seconda linea. La ragazza, infatti, ad inizio anni ’90 convinse Martin a tornare in Inghilterra dopo che Colin Meads e la Federazione neozelandese avevano messo gli occhi su di lui. Johnson sostituisce da capitano Lawrence Dallaglio, terza linea mostruosa per workrate e per capacità di avanzamento. Gli avversari non lo prendono proprio mai, e se lo prendono è solo per farsi dare un passaggio fino a qualche metro più in là. È molto più ciarliero di Johnson, Woodward lo sceglie forse proprio per questo motivo, ha bisogno di una guida in grado di parlare sempre e comunque ai suoi compagni. Peccato che alcune sue parole relative a un paio di pagine della sua vita rimaste incollate l’una con l’altra vengano separate da una ragazza, sedicente amica per una notte, rivelatasi poi giornalista di un tabloid. Via la fascia. Qualcuno lo vorrebbe fuori anche dalla Nazionale, ma forse nessuno ci crede davvero ad una Nazionale senza quel numero 8.

Woodward, poi, scopre un’altra cosa: quel ragazzino di soli 18 anni mandato allo sbaraglio in Australia con la maglia numero 10 sulla schiena non è propriamente una degna riserva di Grayson. Parliamoci chiaro: Grayson è un signor giocatore, ha un metronomo interno che da quelle parti non è sempre stato in possesso di tutti. Ma mettiamola così: Grayson, nei confronti del biondino, altro non è che un discreto Giovanni Battista che non ha mai incontrato Salomé. John Peter Wilkinson, il ragazzino, è qualcuno che può dividere pani e pesci. Wilkinson è un fenomeno, ha vent’anni e la testa di un veterano, due piedi che per creazione di endecasillabi ricordano tanto le mani del Bardo Shakespeare e una capacità difensiva che non tante aperture a quei livelli hanno. Non manca molto, no davvero. Nel 2002 perdono di misura Le Crunch, il rituale scontro titanico con la nazionale francese, ma a novembre battono di seguito All Blacks, Australia e Sudafrica, rifilando agli Springboks 53 punti. Sì, dicono in tanti, bravi, ma giocare nell’altro emisfero è un’altra cosa. Certo, vero. Nel 2003, dopo aver dominato il Sei Nazioni, si presentano nell’emisfero sud. Battono i Maōri All Blacks, poi di nuovo All Blacks e Australia. Ma non è tanto la statistica, è la modalità a fare spavento: a Wellington gli inglesi si impadroniscono delle fasi statiche, nei raggruppamenti si fa quel che dicono loro. Wilkinson trasforma in oro qualsiasi cosa passi per i suoi piedi, Dallaglio e Neil Back in terza sembra abbiano i tentacoli. Ecco, a proposito. Neil Back. Se volete descrivere l’aggressività di quella squadra inglese a una persona digiuna di rugby fatele vedere una foto di Neil Back. Terza linea agile, ma col piglio dell’ergastolano. Si è preso una squalifica per aver placcato l’arbitro da dietro. Si è scusato dicendo che lo aveva confuso con Andy Robinson. È entrato negli annali per essere riuscito nel bel mezzo di Thomond Park a soffiare da sotto al naso un pallone che Peter Stringer stava inserendo in mischia e a portarlo dalla sua parte. Ha una furia agonistica fuori scala, a volte troppa, e infatti a Wellington si fa cacciare. Gli inglesi rimangono in tredici con i neozelandesi in rimonta, Johnson chiama a sé tutti i reduci prima di una mischia. Li mette in cerchio, li guarda, poi dice una semplice, efficacissima frase: “Get down and shove them”, “Andiamo giù e massacriamoli”. Oh, cinque parole, ma quella mischia l’hanno vinta. E se una settimana dopo ti permetti di battere pure l’Australia, che è nettamente più forte di quella che li massacrò nel 1998, vuol dire che la Coppa del Mondo la si può pure provare a portare a casa.

E però ci si mettono ancora i giornalisti.

Sapete, i giornalisti inglesi sono impagabili. Sanno essere sagaci e sadici come nessuno, soprattutto quando si tratta di inveire contro qualcuno in apparente difficoltà. Si travestono, scavano nel solco e nelle vite dei loro bersagli, poi ci ridono su, che un po’ di British Humour ha sempre fatto bene a tutti. O quasi. I giornalisti sportivi, se vogliamo dirla tutta, sono forse quelli che scavano di più. E se nel 1998 avevano trovato un più che valido motivo per sfregarsi le mani prima, durante e dopo il famigerato Tour of Hell, nel 2003 qualcuno di loro se ne esce con una battuta: “Ehi, ma più che la nazionale sembra la Dad’s Army”. Già, qualcuno deve aver dato un’occhiata all’età media della squadra di Woodward, non delle più rosee, paragonando subito Johnson e compagni ai protagonisti di una divertente commedia andata in onda dalla BBC a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, un manipolo di ex soldati in età da pensione alle prese, dopo anni di inattività, con la vita militare di un tempo. Non è che la cosa sia senza senso, a dirla tutta: a parte Wilkinson, Lewsey e Thompson (che ha 25 anni ma ne dimostra almeno dieci in più) non è che siano in molti a poter toccare realisticamente con mano un’altra Coppa del Mondo a questo livello.

Lo sanno, gli inglesi, lo sanno. Ma vanno oltre.

Il debutto contro i Lelos georgiani dura praticamente dieci minuti: un calcio per parte, poi il XV della Rosa cambia passo, 84 a 6. Tocca agli Springboks, che schierano un altro 10 boero, dal colorito lattiginoso, ma stavolta le somiglianze tra De Beer e Koen si fermano qua, visto che il secondo sbaglia una miriade di calci e regala la meta della staffa a Will Greenwood, centro non portentoso ma di una concretezza quasi affascinante. È il figlio di Rick, già giocatore anche in Italia e firmatario del più bel commento di sempre ad una meta azzurra in quel di Murrayfield nel 2007, un romanissimo “’mazza che bellezza” detto con accento albionico che vale da solo il prezzo del televisore. Affrontare l’Uruguay non è nemmeno divertente, poi però ci sono i samoani. Il primo posto nel girone, posto che il Sudafrica è comunque più forte di Lima e soci, è praticamente in tasca. Solo che i samoani proprio non ci stanno a uscire così. La mettono da subito sulla corsa e sul fisico, la tattica la lasciano a chi è capace di usare lavagna e gessetti. Gli inglesi non ci capiscono nulla. Va’a allunga al piede, i suoi vanno avanti e ci restano un bel po’, almeno finché Wilkinson non sveglia tutti dal torpore, 35 a 22 e si va ad affrontare il Galles di Steve Hansen, che non è ancora questo Steve Hansen ma che sembra finalmente aver trovato i meccanismi giusti per far volare il Dragone. Per esempio, nel match contro gli All Blacks nel girone, si rende conto che quell’aletta lì, quel piccolino di Swansea, ha gambe che nessun altro può permettersi. Lo ripropone titolare contro gli inglesi, e per un tempo nessuno riesce minimamente a tenerlo fermo.

Shane Williams, dicono si chiami.

Un fenomeno.

Gli inglesi, sotto nel punteggio, sentono per la prima volta nel torneo che la partita non è in mano loro. Samoa era durata troppo poco, questi demoni gallesi invece volano che è un piacere. Johnson non dice nulla, ma gli altri capiscono al volo. Si aggrappano ai raggruppamenti, all’artiglieria pesante. Al piede di Wilkinson, che vede e provvede. E alla solita meta di Greenwood, sempre a disposizione quando serve. In semifinale c’è la Francia, che va subito in meta con Betsen, che sfrutta una sbavatura inglese in touche. Poi, però, gli inglesi prendono il sopravvento: per cattiveria, per vis pugnandi, per concretezza mai più vista una squadra del genere. Capiamoci, non si sta parlando di bellezza, di estetica del rugby: quello proposto dagli inglesi è un gioco di miniera, un grandissimo gioco di miniera, il più bel gioco di miniera mai visto. Non puoi fare l’esteta contro i francesi, non qui almeno. Un gioco talmente bello da abbagliare i francesi, incapaci di tenere il ritmo senza far fallo. E incapaci di creare un piano B che non prevedesse l’utilizzo di Michalak, talentuosissimo numero 10 ingabbiato a più riprese dagli avanti inglesi e incapace di uscire da un tunnel così ben costruito. La pressione su di lui, ad un certo punto, era ai limiti della tortura.

Nell’altra semifinale, intanto, l’Australia ha massacrato il caos organizzato degli All Blacks di John Mitchell. Una sola meta, quella di Mortlock, con un intercetto e una corsa di 80 metri dopo uno scelleratissimo passaggio di King Carlos Spencer, ma i Wallabies non hanno mai dato la sensazione di poter perdere quel match. Rispetto al 1998, si diceva, rispetto a quell’inizio di Tour of Hell, la squadra è nettamente più forte. Rod MacQueen è stato sostituito dall’ex allenatore dei Brumbies, ex tallonatore, figlio di un australiano e di una giapponese. Eddie Jones, che avanza qualche birra e un bel po’ di sakè da più di qualche appassionato di rugby in giro per il mondo, ha pescato dal rugby a 13 e si è portato a casa un triangolo allargato mostruoso: Lote Tuqiri e Wendell Sailor alle ali, giganteschi e velocissimi, e Mat Rogers, che potrebbe giocare in qualsiasi ruolo dei trequarti, ma che in finale si “limiterà” a fare l’estremo. Jones non si sogna nemmeno di toccare quella mediana, quella Gregan-Larkham che darà il nome ad una tribuna di Canberra, ma dietro di loro forgia una linea di centri completa e fortissima, con Elton Flatley, di fatto un’apertura, e Stirling Mortlock, più a suo agio negli spazi aperti. Entrambi con la tomaia educata. La mischia chiusa non è la specialità della casa, ma in terza Jones sceglie un fenomeno, George Smith, devastante in ruck e negli uno contro uno. La partita è intensa, vibrante, ma non bella. È una finale, difficilmente una finale può essere bellissima. Vanno avanti gli australiani, con Larkham che vede un mismatch tra Lote Tuqiri e Jason Robinson all’ala e calcia altissimo. L’australiano, 18 centimetri più alto e 20 chili più pesante, afferra per primo l’ovale e schiaccia a terra. si riparte, ma questa volta l’Inghilterra non si scioglie. Wilkinson centra i pali tre volte, poi trova un buco a Dallaglio e corre al suo interno. Il numero 8, braccato, gli restituisce l’ovale. Il tempo che quell’ovale passa nelle mani di Jonny è infinitesimale, perché all’esterno c’è Jason Robinson.

Contro Tuqiri.

I due fanno patta, Robinson gli fa il giro intorno, gli inglesi vanno avanti 14 a 5.

Gli australiani barcollano, ma in qualche modo riescono a rimettere in piedi la partita nei raggruppamenti. Flatley, prima dell’ottantesimo, spara tre volte l’ovale tra i pali e pareggia. Si va ai supplementari. Ancora Wilkinson, ancora Flatley, altro tempo supplementare. Le forze sono quello che sono, ma a pochi istanti dalla fine a rendersi protagonista è tale Matt Dawson. Dawson, professione mediano di mischia, era il capitano della squadra nel famigerato Tour of Hell. Lo guardi in faccia e vedi il ghigno di chi, l’altro ieri, si è scopato la tua morosa e ha tutta la voglia del mondo di dirti che no, non è stato uno 0 a 0 senza emozioni, sotto le coperte. È scaltro, cattivo quanto basta, perfetto per dar vita ai palloni cacciati dalla masnada inglese. Dawson elude un passaggio e trova le guardie disattente. Corre per una decina di metri, forse qualcosa di più, poi viene atterrato da Rogers e Smith. Il primo a suonare la carica è Martin Johnson, poche parole nel portafoglio e tanti centimetri di avanzamento, per se e per gli altri. Dawson riconquista la posizione. Gioca con l’arbitro e con due dubbie posizioni delle guardie australiane. Nel mentre, spara la palla indietro. il passaggio è teso, il destinatario ha il polso di Coppi a riposo.

Jonny Wilkinson.

Se non è la cosa più vicina al canestro di Michael Jordan contro Utah del 1998, ditemi voi che cosa può portare un uomo onesto, un uomo probo e pio così vicino all’ateismo. Mancano pochi secondi, ma Johnson e compagni nascondono la palla. Una squadra di giocatori più che maturi, un esercito di papà così avanti con l’età porta a casa un torneo che non sembra fatto per chi ha così pochi giorni di attività professionistica ancora in faretra. Una squadra di papà, l’avevano detto i giornalisti. Giornalisti che sono tutti lì, chi allo stadio, chi all’aeroporto, a incensare una spedizione amabilmente (ma fino ad un certo punto) sbeffeggiata fino a qualche minuto prima. A cercare spunti, come quello che vedrebbe i padri vincere un trofeo grazie alle prodezze del loro figlio prediletto. Uno che quattro anni più tardi, dopo aver attraversato un deserto personale irto di infortuni e depressione, riuscirà quasi a bissare il titolo, ma con una squadra di un paio di categorie inferiore.

Ma questa è un’altra storia.

Nel frattempo ci si mette la British Airways, la compagnia di bandiera. Sembra che non abbiano più voglia di disegnar vignette. Peccato: un drop come quello, sarebbe stato un bello spot per rappresentare quanto da quelle parti, anche da vecchi, si voli sicuri alla meta.

Sarà per la prossima volta, forse.