424855_333314590040850_151392304899747_920292_1273865827_nLa favola del rugby come sport adatto a tutti mi sta, in effetti, un po’ stretta: nel mondo ovale, infatti, è risaputo che le caratteristiche fisiche contano, anche se solo fino ad un certo punto. I quindici che vanno in campo, uomini o donne che siano, possono essere veramente di una disomogeneità fisica devastante: lo sappiamo tutti che se sei robusto vai a finire quasi di sicuro in mischia, se invece sei molto veloce potresti essere un ottimo tre quarti, mentre se sei piccolino ti cacciano a fare il mediano e così via.
Ma da qui a dire che è uno sport per tutti, ce ne vuole davvero molta di fantasia!
Per giocare a rugby servono molte altre doti, ben più importanti di quelle fisiche, perché se non hai passione, coraggio e spirito di sacrificio instancabile, non vai da nessuna parte anche se sei veloce come un centometrista o forte come un bulldozer..
E questo vale tanto per gli uomini, quanto per le donne.
Più che determinate fattezze fisiche, per giocare a rugby devi avere una forte personalità.
Qualche giorno fa in uno spogliatoio femminile mi è capitato di parlare con una ragazza, che per “non far nomi” chiamerò Alice, 27 anni, laureata, lei viene a Mira da Trieste, due, tre sere la settimana,  parte alle 18 e, se ce la fa, rientra per mezzanotte, come Cenerentola, perché con lei viene ad allenarsi anche Eleonora, che di  anni ne ha  16 e che la mattina si alza alle 6 per andare a scuola.
Fanno più di 320 km tra andata e ritorno, per allenarsi con il freddo, la pioggia, la nebbia…
Poi ci sono Martina e Giulia, che hanno la “fortuna” di venire dal Lido di Venezia, una località bellissima e perfetta per vedere  la Mostra del Cinema, ma che diventa di una scomodità unica se ti passa per la mente l’idea di fare sport:  partono addirittura alle 17,45: si allenano dalle 20 alle 21,30 e appena  sentono il fischio che decreta  la fine dell’allenamento, devono  correre in spogliatoio come se dovessero ancora segnare un’ultima meta:  vanno alla massima velocità, infatti, per non perdere il ferry boat.
Cito loro come esempio, ma so che come loro, ce ne sono altre e altri, in tante società d’Italia.
Nel mio passato rugbistico, conto quattro stagioni giocate “fuori sede” e ricordo bene quanto lungo fosse il tratto Mirano/Vicenza/Mirano, in certe sere invernali. Per questo posso capire bene queste ragazze che fanno un sacrificio davvero grande. Le ammiro molto per la loro costanza. E con loro ammiro tutti quelli che, in nome di questa passione, affrontano viaggi e disagi, uomini o donne che siano, giocatori, giocatrici e allenatori. Sono convinta che queste persone, per le quali il rugby non è una professione, ma è pura e semplice passione, siano tutte molto speciali: profondamente uguali tra di loro, tutte con lo stesso cuore ovale che batte nel petto e, nello stesso tempo, così diverse da tutti gli altri, da quelli che credono ancora che il rugby sia uno sport per tutti e che, purtroppo, si sbagliano di brutto!

Di Federica Bortolato
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