Sébastien Chabal, l’Orco, lo spauracchio che ha terrorizzato mezzo mondo ovale, è in panchina. Mani negli occhi, poi nei capelli, sempre più argentati, così come la barba. Felpa della Nazionale addosso, è uscito da qualche minuto e forse solo ora sta realizzando che, ad andar bene, si vincerà la partita dopo aver sofferto l’indicibile.

Ad andar bene, però.

È dura da digerire, perché a Roma, quando è andata male, hanno fatto almeno 30 punti. Sempre vinto al Flaminio, l’ultima volta con un 50 a 8 neanche troppo arrotondato al piede. No, non si può soffrire così, non si può aspettare un fischio dell’arbitro per portarla a casa. Non si dovrebbe, oggi tocca. E il caldo sabato di fine inverno, a Roma, di quelli che promettono una splendida primavera, diventa tutt’altro che lo scenario delle Vacanze Romane descritto dall’Équipe alla vigilia del match. Vacanze Romane, già, questo il titolo della loro prima pagina. Sempre sicuri i francesi, quando si tratta di giocare a rugby coi loro cuginetti italiani. Talmente sicuri che dopo una nostra disfatta a Grenoble, anno di disgrazia 1967, non sprecano più la loro formazione migliore contro di noi. Francia A, Francia XV, Francia A1. Che poi tante volte qualche titolare c’era, ma guai a concedere il cap. Noi li battiamo per la prima volta a Treviso, nel 1993, meta tecnica e piede di Dominguez quanto basta. Poi arriva l’apoteosi di Grenoble, anticipata da una pubblicità francese in cui si chiedevano “Ma questi non fanno solo pasta e pizza?”. Poi il 6 Nazioni, anni di magra. Non riusciamo mai a star vicini nel punteggio, nel 2002 ci attendono con un “Samedi Ravioli”, sabato Ravioli. Vincono loro. Non ci arriviamo nemmeno vicino. Kirwan perde il posto dopo un 13-56 al Flaminio, la Nazionale che poi vincerà due match nel 2007 e giocherà alla grande a Twickenham perde 39 a 3. Sempre vinti, sempre dominati. Sempre derisi. Chiedete a Sergio Parisse, di stanza a Parigi, che alla vigilia di ogni scontro gli si presentano davanti con due valigie e gli dicono “Quanti te ne mettiamo?” E arrivano a Roma il 12 marzo 2011 da favoriti. Hanno un parco trequarti che fa paura, una mischia pesantissima e una mediana atipica, ma in pieno spirito francese, col numero 9 a dirigere e il numero 10 come primo violino. Come comandante delle operazioni Lièvremont sceglie in un primo momento Dimitri Yachvili, numero 9 di origine georgiana, fortissimo al piede e molto solido, ma un suo infortunio rimette in gioco Morgan Parra, delizioso talento di Clermont, uno degli artefici del Grande Slam del 2010. Che però quest’anno ha la catena un po’ giù. In patria lo chiamano “Le merdeux”, a naso nessuno lo scritturerebbe in qualche commedia brillante francese, ma in campo lo ascoltano tutti, e di solito lo spettacolo vale il prezzo del biglietto. L’apertura è François Trinh-Duc, di origine vietnamita, non un radar dalla piazzola ma sempre avanzante, sia alla mano che al piede. Si diceva, sono nettamente i favoriti, ma non è che stiano navigando in buone acque al di là di Ventimiglia. A novembre vincono con Fiji e con i Pumas, che però li irretiscono parecchio. Poi prendono 59 punti dai Wallabies, ma non è solo il punteggio a far preoccupare i francesi. È che gli australiani avevano proprio un altro passo, almeno nel secondo tempo, soprattutto a livello di trequarti. E, cosa non secondaria, gli australiani segnano 43 punti nell’ultima mezz’ora, 29 negli ultimi 15 minuti nel bel mezzo del black-out francese, ben evidenziato dal silenzio dello Stade de France. Coach Lièvremont non ha più le spalle coperte, ammesso le abbia mai avute, e contro Scozia e Irlanda i galletti non brillano.

Nick Mallett, che non è proprio l’ultimo arrivato, ma che neppure lui sta passando dei bei momenti in panchina, queste cose le sa e non resta a guardare. Sa benissimo che, a livello di trequarti, non può mettersi a sfidare i francesi sui 100 metri, altrimenti tanto vale mettere un Tafazzi estremo e tanti saluti. Sa altrettanto bene che i francesi bisogna tenerli bassi nel punteggio, e sempre e comunque ad un tiro di schioppo. Non sono una squadra britannica, non sempre tengono a livello mentale se qualcosa dovesse andar storto negli 80 minuti. E allora per prima cosa cambia praticamente metà squadra, mandando in campo gente che bazzica da tempo nel Top14 come Lo Cicero, Festuccia, Masi e Orquera. Attenzione a questi ultimi due. Mallett costruisce una linea di trequarti composta da Garcia e Canale ai centri e da Mirco Bergamasco e Benvenuti alle ali. Segni particolari: sono tutti potenzialmente dei signori centri e dei granchi in difesa. Dietro di loro staziona Andrea Masi, che è forse il più forte centro azzurro dai tempi dei fratelli Francescato (in attesa di Campagnaro), ma che nella sua onorata carriera si è cuccato tutti i ruoli là dietro. Ad estremo ci giocava già ai tempi di Kirwan e ha il compito di suonare la carica ad ogni pallone accalappiato. Alla mano, soprattutto, per non regalare possesso ai francesi. È una tattica per certi versi scriteriata, non prevede piani B evidenti, ma lui è convinto che se si arriva negli ultimi venti minuti ancora in partita le tattiche salteranno. E con Irlanda e Galles, in modi diversi, la cosa aveva anche funzionato. Poi due drop, uno di O’Gara e uno di Hook, hanno messo le partite su strade diverse. Partiamo fortissimo, conquistiamo una mischia nei 22 francesi, che poi difendono in fuorigioco. Capitan Parisse indica i pali, Mirco esegue. I francesi sono praticamente bradicardici, ma al primo possesso vagamente interessante allargano l’ovale. Arriva a Vincent Clerc. Clerc ha una frequenza e una capacità di corsa rotta che nessuno dei nostri può permettersi. Lo scopre Gonzalo Canale, che prova a difendere sul suo calcetto a seguire, ma in volata arriva secondo. È una meta di stordente bellezza, quanto di più rappresentativo delle capacità dei funamboli transalpini. Accusiamo il colpo, i chili della loro mischia sono tanti, prendiamo un calcio sotto i nostri pali, Parra prende i tre punti. Ci temono, vogliono prendere più vantaggio possibile, tagliarci subito fuori dal match. Prendono benissimo le misure dei nostri due elementi più rappresentativi, Martin Castrogiovanni e Sergio Parisse. Rischiamo di prendere un’altra meta sotto i pali, poi ci salviamo con una grande mischia. Ne abbiamo, non siamo gli All Blacks, ma abbiamo la lucidità di risalire il campo con ordine. Ci serve qualche eroismo del singolo, di quelli che a lungo andare ti intaccano il serbatoio, ma va bene così. Mallett deve inventarsi una mediana nuova all’alba del 6 Nazioni, visto che il golden boy Gori si lussa una spalla dopo 20 minuti di Italia-Irlanda. All’inizio opta per l’esperienza di Pablo Canavosio, ma appena può convoca l’altro numero 9 di Treviso, che si chiama Fabio Semenzato e a 25 si ritrova catapultato in Nazionale senza apparente timore reverenziale. Al suo fianco spazia Luciano Orquera, uno dei giocatori più criticati nella recente storia azzurra. Contro l’Irlanda era stato accusato di aver anticipato troppo i tempi del drop definitivo, contro l’Inghilterra viene asfaltato dai chili di Hape. Non è la prima scelta di Mallett, fosse per lui nella stanza dei bottoni ci sarebbe ancora Craig Gower, ma con l’ex stella del League infortunata se la giocano lui e Kris Burton. I due sono giocatori molto diversi, il 10 della Benetton si fa preferire nel gioco al piede, ma contro questo Francia meno si calcia e meglio è. E allora è Orquera a trovare un bel buco per Canale, Rougerie si danna per riprenderlo, ma poi non rotola via, Bergamasco ricuce dalla piazzola.

I francesi provano ad accelerare, ma si rendono conto che gli azzurri, nei raggruppamenti, non sono così teneri come si pensava: arrivano per primi, puliscono, se ne vanno. Il lavoro di Omar Mouneimne, consulente sudafricano voluto da Mallett per i punti d’incontro, sta dando i frutti sperati. E si rendono conto che uno Chabal così lento e farraginoso non è il massimo per la squadra, nonostante capitan Dusautoir stia facendo gli straordinari come sempre. Soprattutto se davanti ci sono, oltre a Parisse, un’autoblindo come Robert Barbieri e un monumentale Alessandro Zanni da Udine, uno che silente come sa essere un friulano sta inanellando una prestazione mostruosa dopo l’altra. A questo aggiungete una prima linea che regge l’urto e un Del Fava che dall’alto dei cieli porta giù qualsiasi cosa. E una difesa che, come da previsione, non fa passare quasi nulla. L’8 a 6 con cui i francesi conducono a metà partita è tutto quel che volevamo, siamo lì col fiato sul loro collo. E la ripresa inizia ancora meglio: la difesa avanzante azzurra strappa un possesso, fa due fasi, poi Orquera mette nello spazio Masi. Il nostro estremo corre, poi però perdiamo palla e i francesi si installano nei nostri 22. Parra calcia tra i pali un tenuto fischiato a Castro, poi Parisse azzarda una linea di difesa esagerata, Trinh-Duc esplora il buco e serve di nuovo il suo numero 9 sotto ai pali. Fanno 10 punti tondi in meno di 10 minuti, il match cambia bruscamente.

Anche perché i francesi si ringalluzziscono, si svegliano dal torpore e danno giri al motore. Medard fa sempre strada, Clerc e Huget sono nuvoloni che minacciano tempesta ogni volta che arriva loro palla. E però è proprio Huget che si fa prendere dalla foga e attacca il centro del campo, Semenzato lo prende e lo costringe al tenuto. Bergamasco purtroppo incappa in una zolla e il calcio si spegne prima dei pali. Il peggio l’abbiamo passato, ci scrolliamo di dosso la scimmia della meta di Parra, ma Bergamasco sbaglia un altro calcio. No, non sembra essere giornata. E però continuiamo a giocare, è ancora lunga. Siamo sotto, probabilmente più stanchi e sfilacciati dei francesi, ma quella palla la vogliamo tenere.

Preferibilmente nella loro metà campo.

Abbiamo il cuore forte, forse più forte di quel che effettivamente potremmo permetterci. Ma il cuore in matematica non aveva sti gran voti.

Zanni, il cui lavoro oscuro si vede solo in parte, è un’iradiddio. Pulisce raggruppamenti che è un piacere ed è sempre in avanzamento quando ha la palla in mano. Nei 22 francesi si scrolla di dosso due placcatori e guadagna l’abbrivio, poi serve Benvenuti. Sta arrivando in sostegno Garcia, che sei stanco per lui per quanto ha placcato finora. Parra blocca tutto ai 5 metri. Semenzato è un gatto, ha ritmi che nessuno si aspetta da quello che sulla carta dovrebbe essere il terzo mediano azzurro. Tira fuori la palla e serve colui che da un’ora sta tagliando in due la Francia, che arriva lanciato e schiaccia.

Andrea Masi, bravi.

Il Flaminio viene giù, è l’ultima volta che si gode la Nazionale, dal 2012 si giocherà all’Olimpico. Ci viene dietro, spinge in mischia, si fa sentire. Anche dai francesi.

E guarda te che Mallett, quello che ha le spalle al muro più di Lièvremont, ha indovinato la tattica. I francesi si guardano, sono smarriti. E non si parlano. Non fanno errori marchiani eh, ma si rendono conto a poco a poco che hanno sottovalutato il match. Che Yannick Jauzion, uno che solitamente trova linee e spazi inusitati per altri, questa volta è completamente in un’altra dimensione. Che Chabal e Rougerie non sono più i fulmini di guerra dei loro anni d’oro. E che questa Italia andava “ammazzata” prima, perché da adesso in poi la partita cambia veramente. Vendiamo la nostra metà campo, giochiamo di là. I francesi subiscono pressione e avanzamento azzurro, Bergamasco aggiunge altri tre punti. L’attacco francese è abulico, Trinh-Duc prova il drop, ma non hanno avanzamento. Qualche problema glielo risolviamo noi regalando loro un piazzato dai nostri 10 metri, ma appena torniamo di là ci restituiscono il favore. No, loro barcollano, non ci sono più. Hanno anche mollato la presa su Castro e su Parisse, che ogni volta che prendono palla incantano e guadagnano centimetri, se non metri, preziosi. Anche noi siamo in riserva, giocare 80 minuti così è veramente dura, poi però il neoentrato Burton vede il triangolo francese messo male e calcia nell’angolo. Huget rincorre l’ovale ma mette un piede fuori, touche nei loro 22, battiamo veloce, loro fanno fallo.

Pali.

Sono i momenti più lunghi. Il calcio è defilato, in tv si vedono solamente Mirco che calcia e la palla che si impenna. Bisognerebbe attendere la parabola del pallone, ma il pubblico ruggisce e ci toglie dall’impasse. Siamo avanti noi. Manca tanto, però, il Flaminio lo annusa e diventa una bolgia. Abbiamo il fiato corto, ci aggrappiamo agli eroismi dei singoli, come nel primo tempo. Loro ripartono alla mano, sono feriti, disperati. Non sono lucidi, preferiscono battere sul posto una punizione invece di calciare in touche. Appena può Burton li rispedisce all’angolo con un calcio, ma loro ripartono con la forza della disperazione. Perugini e Castrogiovanni mettono le ali in un paio di occasioni, li arginiamo sulla linea dei 22. Il pubblico canta forte Fratelli d’Italia, il canto non ha mai fine. Sébastien Chabal, l’Orco, lo spauracchio che ha terrorizzato mezzo mondo ovale, è in panchina. Mani negli occhi, poi nei capelli, sempre più argentati, così come la barba. Felpa della Nazionale addosso, è uscito da qualche minuto e forse solo ora sta realizzando che, ad andar bene, si vincerà una partita dopo aver sofferto l’indicibile. Ad andar bene. Perché i punti bisogna prenderseli prima e segnarli poi. E no, non si può soffrire così, non si può aspettare un fischio dell’arbitro per portarla a casa. Ci sfidano in mischia, i chili in più si sentono eccome, ci spingono indietro. Per due volte l’arbitro fischia il reset, almeno una delle due sarebbe un fallo nostro, ma non lo considera tale. La terza volta teniamo senza falli, deve uscire Bonnaire, lo prendiamo e rendiamo la palla ingiocabile. L’arbitro fischia la fine. Viene giù praticamente di tutto, le tribune mobili ballano o quasi al ritmo di Rino Gaetano, tutti guardano il cielo che è sempre più blu. Anche i francesi, per i quali il cielo invece piove sulla città. Si chiedono dove sia Roma, che era lì con loro, nei loro sogni di facili e caldi pomeriggi invernali, quelli che promettono l’imminente primavera ma che finiscono per grandinare nonostante le nuvole siano più lontane della Nuovissima Zelanda che per poco non conquisteranno ad ottobre. Noi invece il sole ce lo godiamo tutto, nessuno vuole andarsene dal Flaminio, che è l’ultima volta, tutti a festeggiare, a bere, a piangere, Nick Mallett in testa.

Tutti lì ad assaporare la storia.

Fermi lì.

A farci fregare dal tempo che passa.

“Ah, dolce vita che te ne vai”.