Nevers, Borgogna Francese. Quarantamila abitanti, una cattedrale, un Palazzo e una ragazzina che ha visto qualcosa di più grande di lei. Poco più piccola di Napier, tre ore scarse da Parigi. Francia, terra di cose che mi devo riconquistare. Il rugby, per esempio. Ma pure la Francia. Ero a Clermont, qualche stagione fa. Gran squadra, arrivammo in finale nazionale. Qui il trofeo lo chiamano lo Scudo di Brenno. Perdemmo, mi girano ancora le palle. Non l’ho giocata quella partita, ma è stata l’ultima volta che ho lottato per qualcosa di grande, per quel che riguarda il rugby. Certo, tutte le battaglie in campo hanno un fine nobile, ma quel sentore di nobiltà ovale non l’ho più toccato. C’ero abituato, però, e come con tutte le cose a cui sei abituato sei convinto che un giorno ritorneranno. Non va sempre così. Ci speri, da ragazzino, soprattutto quando capisci che hai qualche cosa in più rispetto ai tuoi coetanei. Arrivano delle convocazioni, ti cercano le squadre più forti, ti cerca la Federazione. Tocchi il cielo con un dito, soprattutto quando, nel mio caso, la lettera di convocazione è scritta su carta intestata e adornata da una felce argentata. Nazionale under 20, si va ai Mondiali. No, le selezioni giovanili non sono il vero punto d’arrivo. Ne ho visti parecchi perdersi: alcuni c’hanno riprovato altrove, altri si sono fermati. Altri giocano davanti a 1000 spettatori, forse meno, in un qualche punto in cui nemmeno immagini possa essere arrivato il rugby. Sono i momenti in cui pensi che no, questo non toccherà a te. No, io mi saprò gestire, saprò sfruttare tutto quello che ho, saprò farmi il culo più degli altri. Sono i momenti in cui segni otto mete in cinque incontri e porti la tua squadra a vincere. Sono i momenti in cui ti senti il re del mondo, attimi che vorresti durassero per sempre.

Il mio è durato qualche minuto.

Tra il pubblico c’erano i miei, si erano presi delle ferie per seguirmi in Giappone. Mi hanno sempre seguito e supportato, non potevano non farlo per quel torneo, per quel Mondiale under 20. Solo che, mentre stavamo festeggiando, mi accorsi che qualcosa non quadrava. Sai, sono quelle sensazioni che non puoi spiegare, ma che ti attraversano e ti mettono a nudo. Non importa quanto preparato tu sia, non lo sarai mai abbastanza. Girai lo sguardo verso le tribune, papà e mamma non c’erano. Corsi subito lì, mi spiegarono che mio padre se la sarebbe cavata. Non andò così. Quando il cuore decide di alzare bandiera bianca o hai la fortuna di avere qualcuno del settore a 5 millimetri da te o altrimenti è finita. Rob, mio padre, è morto lì.

Dicono che tante volte non ci si accorge subito se una pietanza è cotta o meno. Né un occhio ingenuo si accorge subito di quanto solida sia una casa. Tante volte l’apparenza visiva frega. Io, per tutti o quasi, dopo quella giornata ero e rimanevo il ragazzino che ce l’aveva fatta, un fenomeno che a 18 anni era titolare nel Super Rugby, uno che a 20 anni aveva fatto sfracelli ad un Mondiale giovanile, uno che a 22 anni sarà campione del mondo insieme a Richie McCaw, Dan Carter e altri fenomeni. Ho fregato tutti, ma non l’ho fatto apposta. Il mio declino era già iniziato. O, forse, il mio futuro era già alle spalle. Mi sono rintanato nelle mie difficoltà, ho reagito facendo peggio. Non è giusto restare senza padre a 20 anni, quando ti senti invincibile. Ti costringe a crescere più velocemente, è vero, ma tutti quelli che ho conosciuto e che mi hanno detto questa frase il padre ce l’hanno ancora, vivo e vegeto. C’ho provato a crescere, ma mica è facile richiudere le ferite. Ho provato a dimenticarle, ho cominciato a bere in modo smodato, picchiando gente a caso alle feste e facendo dannare mamma, l’unica persona con la P maiuscola in grado di starmi sempre dietro. Mi sono vergognato di me, mi sono vergognato per lei, esposta al pubblico ludibrio da un figlio squilibrato. Avrei tanto voluto essere come Aaron, Aaron Cruden. Quel mondiale, quello giovanile, l’ha vinto con un testicolo in meno, il prezzo di un tumore sconfitto. Lui ce l’ha fatta, ha mantenuto la calma e ha sfondato. Se l’è meritato. Io annaspo. Il campo, a meno che tu non sia un fenomeno vero, riflette chi sei veramente. E se sei nato da questa parte del mondo devi sgomitare parecchio per rimanere in alto. Savea è un fenomeno, Ioane è ancora più forte. Io sono rimasto fermo. Ho visto gente con metà del mio talento, metà delle mie potenzialità sopravanzarmi nelle gerarchie di tutti i miei allenatori. Uno dopo l’altro. È uno schiaffo mica da ridere. C’ho provato in Francia, poi con i Waratahs in Australia. In Nuova Zelanda, a livello di franchigie, nessuno mi ha più voluto. Mi sono bruciato. Nessuno lassù vuole veramente con sé un ragazzo che quando beve due bicchieri comincia a picchiare la gente. Gli All Blacks? Non scherziamo. A 27 anni sono ripartito dall’NPC, dal piano di sotto. Se a quell’età sei lì vuol dire che stai già pensando al futuro, non necessariamente ovale. Sì certo, puoi fare ancora una carriera dignitosa, magari farti coprire di soldi  da qualche squadra giapponese, che qui da queste parti fanno parecchio shopping, ma gli All Blacks sognateli. C’è gente che a 20 anni ha talento e fame con cui non puoi più lottare per quanto tu possa sputare sangue e pezzi di anima. La carta d’identità, in certi frangenti, è lì a dirti che la tua possibilità l’hai avuta, ma che ora è meglio pensare ad altro. Facile, direte. Ma se sei nato in Nuova Zelanda, hai giocato con quella maglia per 11 volte e hai vinto una Coppa del Mondo, beh, fuggire da tutto questo è una bella impresa disperata. Nemmeno Jonah Lomu sarebbe riuscito a respingere certi avversari. Ho pensato ad altro, ho provato a fare il maestro di sostegno in una scuola media, mi piaceva pure, forse un giorno ci farò un pensierino. Il rugby mi ha insegnato il sostegno, il fatto che questo concetto possa far parte del mio futuro in parte mi fa stare meglio.

Nel frattempo il mio prossimo biglietto dice Nevers, Borgogna Francese. Quarantamila abitanti, poco meno di Napier. Una Cattedrale, una squadra di rugby nella seconda serie. Una discreta squadra, quest’anno avevano uno dei budget più risicati ma si sono salvati con merito. Ci sono un paio di isolani che erano discreti in NPC e tanti onesti giocatori francesi, un paio di questi giocano per la Nazionale spagnola. Il livello sembra buono, spero di essere all’altezza. Di quello che ero, di mio padre e della gente che mi ha voluto bene. Di essere, forse, come quella ragazzina, tale Bernadette, che quel giorno disse di aver visto e ammirato qualcosa di più grande. Spero di perdermi ancora per questo mondo, è l’unica via che forse mi resta per ritrovarmi. E spero di volare ancora oltre quella linea, non tanto per schiacciare la palla a terra, ma per capire cosa sognano i ragazzi di 20 anni quando credono di essere invincibili e vengono schiaffeggiati dalle vicissitudini.

Mi chiamo Zac Guildford. Il momento più bello della mia vita è coinciso con quello più brutto, tanto per farmi capire che nessun pallone ovale in questa vita è controllabile.

Ho perso e mi sono perso.

Certe maglie non le indosserò più, certi colori non saranno più miei.

Ma, nel rugby e nella vita, ho capito che ho ancora tanto da capire.

E farò di tutto per riuscirci.

Stanne certo, papà.

Stanne certo, Zac.