Di Andrea Pelliccia

Il 1973 fu un anno cruciale per il rugby italiano. Nel mese di giugno di quell’anno, infatti, iniziò la tournée più lunga e impegnativa mai affrontata fino a quel momento dalla nostra Nazionale. Un intero mese e ben nove partite in Africa meridionale. Avversari la Rhodesia e alcune tra le più forti selezioni sudafricane.

A rendere ancora più prestigioso quel tour il fatto che ciascuna partita venne considerata ufficiale.

Ricordo quell’evento fondamentale con Paolo Paoletti, uno dei protagonisti della tournée. Paoletti, nato a Frascati nel 1952, tallonatore, ha collezionato 20 “cap” con la Nazionale Italiana (tra il 1972 e il 1976) e un titolo di Campione d’Italia con la maglia del Brescia nel 1975.

Paolo, ricordi come venisti a conoscenza dell’intenzione della F.I.R. di svolgere quel tour?

Mi ricordo che in quegli anni il Presidente della F.I.R. era il romano Sergio Luzi Conti un uomo dei C.U.S. che in quel periodo dominavano la politica federale.
Dopo la sconfitta 60 a 13 di Tolone contro la Francia del 26 marzo 1967 iniziò un periodo di grave crisi per il rugby italiano. Si andava avanti a tozzi e bocconi, fino a quando, il 21 febbraio del 1971, la nostra Nazionale venne sconfitta a Napoli dal Marocco in una partita valida per la Coppa Europa F.I.R.A. della poule A. Questa sconfitta fece cadere il rugby italiano e tutto il movimento nell’abisso. Retrocessi nella poule B, dove restammo fino al 1974, cominciarono i lavori per riorganizzare tutto il settore tecnico federale che fino a quel momento aveva visto alternarsi una miriade di responsabili tecnici. La ricostruzione avvenne dal basso, i responsabili tecnici cominciarono a lavorare nelle giovanili e penso che mai come in quel periodo vennero sfornati tanti giocatori di qualità italiani.

Bisognava però far fare esperienza internazionale a tutti questi giovani e la federazione inizio a prendere i suoi primi contatti con la federazione Sudafricana. Questa, per prepararci ad affrontare la tournèe che si sarebbe effettuata da li a qualche mese, ci inviò un coach, Amos Duploy, ex pilone degli Springboks. Arrivato in Italia, Amos Duploy venne affiancato agli allora responsabili tecnici della Nazionale Italiana, Gianni Villa di Roma e Gigi Savoia di Piacenza, che nel frattempo da allenatori delle nazionali giovanili erano stati promossi a tecnici della nazionale maggiore. Radunati a Milano 27 giocatori di cui 20 giovanissimi e 7 con esperienze internazionali come Lazzarini, Bollesan, Quaglio, il sottoscritto (avevo già collezionato 5 presenze nella nazionale maggiore) e qualche altro, in un mese preparammo la tournèe. Ricordo che la spedizione aveva qualcosa di proibitivo ma io, allora ventenne, non mi interessavo di Apartheid: ero preso più dalla voglia di giocare a rugby. Il 13 giugno del 1973 cominciò l’avventura.

Come hai ricordato, la nostra Nazionale non viveva un momento brillante dal punto di vista dei risultati: relegata nella Seconda Divisione della Coppa FIRA, aveva fallito a febbraio la promozione, in virtù della sconfitta contro il Portogallo. Che aspettative avevate dalla tournée in Africa meridionale?

In quel periodo la nazionale non viveva un bel momento, ma ricordo benissimo che all’epoca alcune società italiane di serie A negavano ai propri tesserati di presentarsi ai raduni della nazionale per boicottare. A febbraio fallimmo l’impresa della risalita in poule A non per colpa nostra ma a causa di un arbitraggio scandaloso di un direttore di gara portoghese, tale Fiuza, che dovette sostituire l’arbitro designato regolarmente, il francese Filiatre, che non arrivò a Coimbra a causa di uno sciopero della compagnia aerea francese. Questo incontro lo ricordo benissimo, anche perché, proprio in occasione di questa partita mi beccai una squalifica internazionale che terminò giusto giusto qualche giorno prima della partenza per il Sudafrica.

Il tour era l’occasione per far compiere al nostro rugby un salto di qualità, grazie al confronto con una realtà con più tradizione e più solida della nostra.

La prima partita del tour contro la Nazionale della Rhodesia, l’attuale Zimbabwe. Un pesante 42-4 in loro favore. Che ricordo hai di quell’incontro?

Ricordo che arrivammo all’aeroporto verso le 7 del mattino e di corsa, alla “chetichella”, ci imbarcarono su un volo diretto a Salisbury. Arrivammo clandestinamente in Rhodesia, non ci bollarono neppure i passaporti perché si diceva che se ci fosse stata traccia del nostro ingresso in Rhodesia al ritorno in Italia ci avrebbero arrestati, in quanto il nostro governo non aveva rapporti diplomatici con quel paese. Fortunatamente al ritorno andò tutto bene. Della partita ti posso dire che ricordo anche questa molto bene perché mi obbligarono a giocare in una situazione fisica disastrosa. Il giorno prima ero stato sottoposto a un piccolo intervento chirurgico per un ascesso dietro un orecchio e la mattina stessa del match un dentista mi tolse il dente del giudizio che da tre giorni mi stava facendo impazzire dal dolore. Ricordo molto bene l’ingresso in campo, praticamente eravamo tutti storditi… Io in particolar modo per tutti i farmaci che stavo prendendo. Non era capitato mai, a nessuno di noi, di giocare una partita davanti a circa 60.000 spettatori. Era il 16 giugno e perdemmo quell’incontro per 42 a 4. Fece meta il nostro capitano Marco Bollesan. Ricordo una squadra fortissima in maglia bianco verde a strisce, durissima negli avanti e nei trequarti che già allora giocavano come si fa adesso nel rugby moderno. I loro centri andavano in percussione sui nostri che facevano una grande fatica per fermarli poiché eravamo abituati a un altro rugby. Ricordo un fortissimo loro Numero 8, un certo Murphy, che l’anno seguente venne a giocare in Italia nella Intercontinentale Rugby Roma.

Le partite successive in Sudafrica, contro rappresentative locali. Sette sconfitte, quasi tutte molto pesanti nel punteggio, e una sola vittoria, 24-4 a Port Elizabeth contro i Leopards, i rugbisti di etnia bantù. Vi aspettavate un divario così netto tra il rugby italiano e quello delle selezioni sudafricane?

Mi sono portato dietro il cartellino originale delle gare, dove sono annotati tutti i risultati, e mi sembra che poi tanto pesanti non siano stati, tranne il risultato del match giocato a Witbank il 4 luglio, dove la selezione del South Estern Transval ci rifilò un 42 a 12 e tanti infortunati, in virtù della potenza e della determinazione negli scontri fisici. Fu proprio dopo quest’incontro che cominciammo a organizzarci meglio, specie con gli avanti, in particolare con la prima linea. Cominciammo a farci temere dagli avversari e infatti nel match successivo arrivò la prima vittoria a spese della nazionale di colore, i Leopards per 24 a 4 il 7 luglio a Port Elisabeth.

In effetti, a leggere la sequenza dei risultati, si nota che, una volta pagato lo scotto dell’impatto con il rugby sudafricano, foste in grado di giocare allo stesso livello. Nelle ultime tre partite, infatti, la vittoria contro i Leopards (l’hai già ricordata), la sconfitta per 12-11 contro Orange Free State (che poteva diventare vittoria se fosse stata trasformata la meta nel finale di Caligiuri), la sconfitta per 28-24 all’Ellis Park di Johannesburg contro il North Transvaal, con i famosi tre drop di Rocco Caligiuri. Confermi quest’impressione?

I risultati cominciavano ad arrivare e anche la stanchezza. Alcuni giocatori, come il sottoscritto, dovettero giocare tutti i match perché non c’erano ricambi: le ultime due partite le perdemmo, a mio avviso, più per stanchezza fisica e psicologica che per demerito.

Chiaramente il divario tecnico esistente all’inizio, verso la fine della tournèe era stato quanto meno dimezzato e tutti noi giocatori eravamo cresciuti sotto ogni aspetto, tanto che riuscimmo a impensierire squadre della levatura degli Orange Free State e North Transvaal XV, contro la quale l’arbitro riuscì a privarci della gioia di farci ripartire con un’altra vittoria.

C’è un episodio particolare di quel tour che ti è rimasto nella memoria?

Beh, che dire… tantissimi. Mi ricordo in particolare la sconfitta subita durante una “partitella” di allenamento da una squadretta di studenti liceali che si stavano allenando in un campo attiguo al nostro e che furono chiamati per farci l’opposizione.
Non puoi capire dove ci arrivò il morale dopo quella figuraccia, ma l’importante era imparare!

Nel 2008 l’allora Presidente della F.I.R. Dondi premiò, a trentacinque anni di distanza, i partecipanti a quel tour. Sei a conoscenza di iniziative per i quarant’anni che cadranno l’anno prossimo?

Quella fu una bellissima iniziativa, anche perché in quell’occasione cominciai a riavvicinarmi al mondo del rugby che ormai avevo definitivamente messo da parte. Rivedere dopo tantissimi anni amici come i vari Bonetti, Lazzarini, Mattarolo, Quaglio, Bollesan, di cui ne avevo perso ogni traccia, mi fece un grande effetto e sicuramente mi dette la forza di riappacificarmi col rugby che, se da una parte mi aveva dato tante soddisfazioni, dall’altra mi aveva riservato anche molte delusioni.

Per farmi perdonare dai miei figli, dopo quell’evento detti loro il consenso a frequentare l’ambiente del rugby ,cosa che non volevo facessero.

Sarebbe bello che ci riunissero in occasione di qualche evento importante per consegnarci il cappellino (Cap) promesso in sede di campagna elettorale, ma chissà… In fin dei conti quel gruppo di giocatori contribuì enormemente alla risalita e alla crescita del movimento che stava andando a rotoli e grazie al quale adesso siamo dove siamo arrivati…

Ti sei riappacificato con il rugby, ora infatti ricopri di nuovo un ruolo importante.

È vero. Dopo uno stop di venti anni, derivato dalle incomprensioni con un personaggio che non c’è più, che segnò la mia vita prima di giocatore poi di arbitro, sono ritornato nell’ambiente grazie al Presidente della Commissione Nazionale Arbitri, Dott. Giampaolo Celon, che mi ha reintrodotto come tutor per i giovani arbitri del Comitato regionale laziale.

A novembre va in scena la versione italiana di “Finding Murdoch”, basata sulla vicenda del pilone neozelandese Keith Murdoch. Il giocatore All Black fu cacciato dalla squadra in tour in Europa nel 1972 dopo aver picchiato una guardia giurata; in seguito fece perdere quasi completamente le proprie tracce. Sarai proprio tu a interpretare Murdoch. Raccontaci qualche particolare di questa esperienza teatrale.

Ho conosciuto questa vicenda solo a luglio di quest’anno quando, mentre ero al mare, mi è arrivata una telefonata da un regista e scrittore di pieces teatrali che mi chiedeva la disponibilità a rappresentare il campione tuttonero a teatro. Pensavo a una bufala, ma quando, il giorno dopo la telefonata, mi sono visto davanti il regista che mi consegnava il copione da imparare, non ho avuto più dubbi sulla veridicità della cosa.

La vicenda mi ha preso per la sua drammaticità, spero di far bene la mia parte anche perché nella storia di Keith rivedo in parte anche la mia storia…

A chiusura dell’intervista, approfitto per segnalare data e luogo delle rappresentazioni. “Murdoch” andrà in scena al Cineteatro di Via Valsolda 177 (quartiere Montesacro) a Roma il 16 e il 17 novembre alle 21.00, il 18 novembre alle 17.00.

Le immagini che seguono fanno parte dell’archivio personale di Paolo Paoletti. La foto ufficiale degli Azzurri prima della partenza per il tour, una foto della squadra, il programma e le formazioni di Rhodesia – Italia, una foto della partita contro i Leopards.