Ero stanco, stanchissimo.

La gente pensava fosse per via di Jeremih, mio figlio, due mesi e tanta voglia di vivere. Talmente tanta che le ore di sonno, sue e degli altri, possono pure attendere. No, Jeremih è un amore. Certo, vuole giocare, ha bisogno di cure e attenzioni, ma a trent’anni ancora da compiere non potevo essere sempre così stanco. Né era normale che quando ero alle prese con pesi e ripetute sentissi quelle sensazioni di bruciore e di dolore. No, c’era qualcosa che non andava.

Un virus, pensai.

Una mononucleosi o qualcosa del genere.

Quel giovedì il dottore, letti i miei esami del sangue, disse la parola che nessun trentenne al mondo vorrebbe sentirsi dire: leucemia.

No, non così. E non ora.

No, davvero. Una delle prime cose che mi vennero in mente fu il fatto di non voler lasciare solo Jeremih. Avrei voluto vederlo crescere, magari giocare a rugby come me o magari alle prese con altro. Passare indenne la sua adolescenza e magari insegnargli, un giorno, cosa non si deve fare per rimanere in piedi su questa Terra. Capire bene, per esempio, dove ti attaccherà Jonathan Davies, per non cadere come un salame e lasciare il campo dopo nemmeno un minuto di partita. Era il mio debutto con i Wallabies. mi risvegliai in infermeria, quel giorno, e chiesi che mi lasciassero andare, che dovevo giocare. “Giocare? Ma lo sai che è cinque minuti che russi per via di quella botta?”, disse il medico. Insegnargli a calciare il pallone dalla piazzola, in perfetta solitudine o davanti a migliaia di persone, a guidare un gruppo di amici e professionisti per 148 volte. Oppure a scrivere, se lo vorrà, i nomi dei suoi cari su qualche nastro che si appiccicherà sul corpo prima di una partita. Dal 2006 io scrivo Tavita, il nome di mio padre, andatosene troppo presto negli spogliatoi, colpito al fegato da un avversario simile a quello che ha colpito me.

Scrivo il suo nome e quello dei miei fratelli, che sono rimasti e lottano con me.

Quel giovedì pensai a tutto questo, forse pure a qualcosa di più. Tornai a casa, raccolsi un paio di cose e andai in ospedale. Il sabato cominciai la chemioterapia.

No, non è stato facile.

La vita cambia, le abitudini cambiano, tutto quel che avresti dovuto fare da lì a qualche mese andava cancellato con un colpo di spugna e rimpiazzato da altro. Meno programmabile, meno divertente, ma necessario.

In quei giorni ho pregato molto Dio. C’è sempre stato, nella mia vita, lo so. C’era quando ci trasferimmo qui in Australia da Auckland, c’era quando iniziai a giocare a rugby, c’era quando mi sfasciai una gamba contro i Waratahs, c’era quando saltai la Coppa del Mondo del 2015. C’era, mi sosteneva come il miglior compagno di squadra dopo aver rotto un placcaggio. C’era quando mia sorella decise di aiutarmi e di prestarsi al trapianto. E c’era quando, a pericolo scampato, ritornai in campo a Singapore. Trenta minuti, nulla di eccezionale, ma tornare a vestire la maglia dei miei Brumbies fu una gioia incredibile.

Qualche tempo dopo mi chiamarono dall’Europa, mi voleva l’Ulster. Firmai un contratto di due anni, decisi di far prendere un’aria diversa alla mia famiglia, trovai un mondo incredibile. Un sostegno fantastico, dei compagni di squadra meravigliosi, ma Canberra è sempre Canberra, e sono ritornato a casa. Non ci starò molto, vorrei finire di vedere tutto il mondo che il rugby potrà regalarmi, dopo la Coppa del Mondo rimarrò in Giappone.

Nel frattempo guardo e riguardo Jeremih. Ormai ha quasi tre anni, corre e rincorre qualsiasi cosa.

È pieno di forza e di gioia di vivere.

Qualcuno ha detto che in questo ha preso da me.

Non lo so. Non nego che mi piacerebbe.

Spero che, come me, abbia la fortuna di trovare le persone giuste con cui condividere tutti i momenti importanti e la voglia di venire a capo di qualsiasi casino la vita gli voglia affibbiare.

Rugby o non rugby.

Jonathan Davies o non Jonathan Davies.

Leucemia o non leucemia.

E che, un giorno, io possa avere la fortuna e l’orgoglio di vedere sul suo corpo un nastro con scritto Christian Lealiifano.

Io rimarrò e lotterò con lui.