Come fai a fermare l’inesorabile?

Come è possibile gestire il ritorno dell’avversario sulla carta più forte, dosare le energie in vista di un finale probabilmente in riserva?

Come si fa a spaccare la partita più importante della tua vita in meno di un minuto? Come si fa a regalare e a regalarsi una soddisfazione eterna in meno di 40 secondi?

Succede, a volte. Poche qui da queste parti. Poche a noi, che l’azzurro del rugby lo sudiamo match dopo match. Una, forse. Bellissima.

Quaranta secondi, brevi, brevissimi, infiniti. 20 anni, ora più ora meno.

Cento metri, centimetro più centimetro meno.

Facile a dirsi sbrodolando tra le righe di un blog, molto più difficile quando ti rendi conto che tra il dire e il fare c’è di mezzo molto più che “e il”. Provate a farlo. Fermatevi a cento metri e preparatevi, che è il 1997 e tra Italia e Francia c’è ancora la dogana.

L’agente in servizio ispeziona i documenti, poi si avvicina al più piccolo di tutti, capelli ormai argentati, un po’ tracagnotto. Parlano in francese.

“Tutto in regola, ma fossi in voi tornerei indietro, italiens. Non vale la pena”

“Staremo a vedere”, dice il piccoletto, voce baritonale e sguardo di sfida.

Poi risale i gradini dell’autobus.

Ecco, se li ricordava così, i suoi connazionali.

Altezzosi, sempre e comunque, soprattutto quando c’è di mezzo una palla ovale. Soprattutto dopo la disfatta di Tolone, anno di disgrazia ovale 1967, da quando cioè i galletti decisero che gli italiani non meritavano più il loro cap. Squadre A, B, A1, militari.

Addirittura una selezione di macchinisti.

Non fatevi ingannare, in molte di queste squadre c’erano giocatori di altissimo livello. Molti nazionali, tantissimi talenti che prima o poi avrebbero sfondato.

Ma niente cap.

Non quando davanti ci sono les Italiens, les Ritals.

Troppe vittorie, facili o meno facili, per poterci affrontare con un minimo di timore, sia fuori che dentro il campo. Facili ironie su pizza e maccheroni prima del match.

Questa volta sembra diversa, però.

Dentro a quel pullman c’è un manipolo di uomini che ha voglia di cambiare registro. Alcuni già colmi di spirto guerrier, alcuni in attesa di vendetta. Il più incazzato di tutti è il piccoletto di cui sopra, catalano dal sangue caldo, irrefrenabile numero 9 da giovane, irrequieto allenatore da grande. Guida quegli uomini, la Nazionale Italiana, da ormai quattro anni. Li ha presi idealmente in un caldo pomeriggio di giugno, durante i Giochi del Mediterraneo del 1993. Bermuda, sandali, t-shirt e stecchino spianato in bocca. “Bella squadra, ma con una mischia del genere non potete tenere l’apertura così distante, perdete tutto l’abbrivio”.

Giancarlo Dondi, che all’epoca era il vice di Maurizio Mondelli in Federazione, è ipnotizzato dal personaggio, tutto fuorché convenzionale, che gli si para davanti. Chi gli aveva mandato lì davanti uno così, giusto nel momento in cui si stava discutendo su chi potesse essere il prossimo commissario tecnico azzurro? Per la panchina, in quell’estate infuocata, sono in corsa Gajan e Aguirre, ma qualcuno fa una telefonata a Pierre Villepreux, sommo rivoluzionario del rugby italiano. Se non altro per prendere informazioni su quel catalano che tutto sembrava, fuorché un allenatore di rugby. Fidatevi, le apparenze ingannano. George Coste, il padrone dello stecchino, è tutto fuorché uno sprovveduto. Matto un po’ si, ma quando mai avete visto qualcuno completamente “regolare” nel mondo ovale?

A quei Giochi scherziamo con Croazia e Marocco, fatichiamo un po’ di più contro la Spagna, ma arriviamo in finale contro i francesi. Si gioca a Perpignan in un ambiente ostile, tra tifosi francesi che fischiano a pieni polmoni e arbitraggio quantomeno casalingo. Properzi si becca un cartellino rosso. Per un’ora teniamo il confronto, poi loro cambiano passo, segnano tre mete e si aggiudicano la medaglia d’oro. La Nazionale Italiana è allenata fino al 1993 da Bernard Fourcade, per tutti “Mitou”, che riesce a dare una sferzata all’ambiente e a ringiovanire una Nazionale che aveva molto bisogno di anni verdi. Debuttano con lui tanti protagonisti degli anni d’oro azzurri, da Dominguez, scovato in Francia e portato a Milano, a Ivan Francescato, da Properzi a Vaccari, che gioca in serie A da quando ha 16 anni. Fino a Massimo Giovanelli, terza linea ala, gladiatore con l’aspetto di un capitano di ventura. Uno che il rugby proprio non lo voleva abbracciare e che se lo è visto appioppare da un carabiniere, Luigi Pascarelli, che voleva costruire dal nulla una squadra di rugby.

Lo ferma ad un posto di blocco, lui sta guidando la sua moto smarmittata. “Se vieni a giocare non ti sequestro il mezzo”. Ci guadagniamo così un giocatore che non è passato spesso nei nostri cieli: è sregolato, è in grado di stare tutta la notte a fare bisboccia anche il giorno prima della partita, ma in campo non te ne accorgi: è feroce, il primo a dare l’esempio e l’ultimo a mollare. Gli inglesi farebbero follie per un giocatore del genere. Fourcade, però, non si ferma qui con lui. Intuisce perfettamente che Giovanelli non ha la faccia pulita né un carattere remissivo, ma è in grado di farsi seguire da tutto il gruppo. C’è gente che in campo ammazzerebbe per lui, ragazzi impazienti che aspettano solamente il suo segnale per scatenare l’inferno.

E allora Giovanelli deve essere il capitano.

Ha ragione Mitou, e se ne accorge pure Coste, che non si sogna nemmeno di toccare il capitano, anzi. Scoprirà infatti in Giovanelli un fine psicologo dentro lo spogliatoio.

Mettetela via questa, che tornerà utile.

L’allenatore catalano, per quanto possa sembrare solamente un forte appassionato appena un po’ fuori dagli schemi, ha idee che sono avanti di almeno dieci anni: decide di lavorare subito sulla difesa, sua roccaforte da cui far partire i contrattacchi. Con lui la difesa non si rischiera più per ruolo, metodo dispendioso e controproducente. Pretende poi che i punti d’incontro siano formati da soli due uomini, così da garantire una maggiore copertura al largo. Con questi primi rudimenti porta gli azzurri a vincere per la prima volta dopo anni contro una formazione francese, 16 a 9 a Monigo in una umida serata di novembre, e poi parte per un tour in Australia nel 1994.

A sorpresa non convoca Umberto Casellato, mediano di mischia della Benetton. Al suo posto si porta dietro un ventenne, mediano di mischia del Mirano che in campionato ha fatto meraviglie. Si chiama Alessandro Troncon e lo fa debuttare a Darwin contro una selezione chiamata Northern Territory. Gli australiani improvvisano una caccia all’uomo su Diego Dominguez, lo placcano sistematicamente in ritardo. Coste chiama a sé Giovanelli e gli dà carta bianca, Giovanelli non vacilla.

“Appena lo rifanno tutti in prima linea”.

Mischia dopo mischia, tafferuglio dopo tafferuglio, nasce uno scontro delle proporzioni Achei contro Troiani, con i media australiani a lamentarsi a ripetizione della rissa da saloon innescata dagli italiani. Perdiamo Properzi (espulso) per due partite, Dominguez e Gardner (infortunati) per tutto il resto del tour. Coste, però, ottiene quello che voleva, un branco compatto di uomini dediti alla causa. Nei due test contro i Wallabies ce la giochiamo alla grande, con Troncon che perde il pallone della possibile vittoria ad un passo dalla meta nel primo e un arbitraggio fortemente casalingo nel secondo.

Nel primo dei due incontri si fa male anche Gabriel Filizzola, centro del Milan. Questa mossa porterà Coste a spostare dalla mediana Ivan Francescato e a metterlo nella cerniera dei centri per sfruttare i suoi placcaggi devastanti e i cavalli motore. Non è l’unico accorgimento tattico del francese: al suo fianco mette Stefano Bordon, che ha fatto tutta la gavetta da terza linea e che placca qualsiasi cosa.

Coste sfrutta appieno il dualismo Benetton-Milan in campionato e propone grosso modo la mischia milanese, allenata da Manuel Ferrari sul modello delle più grandi mischie argentine. Pesca però due conigli dal cilindro: in seconda mette Walter Cristofoletto, arrivato tardi in Nazionale e alto “solamente” 192 centimetri, ma aggressivo e abrasivo quanto basta per stupire Coste. In terza si guadagna il posto Andrea Sgorlon, soprannominato “Ciro” da Franco Ascantini, uno dei maestri della palla ovale italiana. Lo chiama così perché in campo ha tutto del “mariuolo” che imperversa molte volte per le strade del Sud: nei raggruppamenti è sveglio, lucido, sa sempre come uscirne. E placca come un demonio. Con lui e Giovanelli terze ali Coste si può permettere il lusso di schierare Julian Gardner a numero 8, che è australiano e ha già caps con i Wallabies, ma che decide di giocare per noi.

È un autoblindo, magari non il più grande placcatore di sempre, ma devastante in attacco. Resta in corsa per il posto fino alla fine Orazio Arancio, difensivamente più consistente, ma uno che ti porta i palloni avanti così, se opportunamente spalleggiato, non puoi lasciarlo fuori.

L’altro rebus di Coste è lo spot di estremo, lasciato vacante dall’addio di Gino Troiani: i due papabili sono Massimo Ravazzolo del Calvisano, una scheggia nei contrattacchi, e Javier Pertile della Roma, oriundo argentino, che ha una corsa caracollante, sembra impastato, ma ha tempi di affondo incredibili e un placcaggio terminale.

Il titolare è lui.

Gli azzurri scalano le gerarchie, si prendono quelle rivincite troppe volte sfiorate negli anni: il 4 gennaio 1997, nel bel mezzo dell’inverno britannico, gli azzurri stroncano l’Irlanda con quattro mete. Due le segna Paolo Vaccari, che è il più in forma di tutti.

In quel pullman per Grenoble c’è, ovunque si guardi, gente fortissima.

C’è soprattutto Massimo Giovanelli.

Non è una ripetizione, fidatevi.

Il fatto che il capitano e lider máximo della squadra sia ancora in campo nel 1997 è legato a qualcosa che sfugge ai calcoli di qualsiasi medico: tre anni prima in un incidente stradale si era fratturato il femore in quattro punti, ora era lì a battere il ferro in terza linea. Inspiegabile, o quasi. C’è Ivan Francescato, e per fortuna qualcuno gli ha tolto di mano la racchetta da tennis da giovane. Aveva i numeri per sfondare, dicevano, ma in generale ha una capacità psicomotoria che non si è mai vista in altri rugbisti italiani. Volendo avrebbe potuto eccellere in qualsiasi sport avesse voluto praticare.

Per fortuna seguì i fratelli maggiori e si innamorò della palla ovale.

Imprevedibile, elettrico, ribaldo. Una faccia per cui Kusturica sarebbe impazzito.

Romantico per quel modo scanzonato di intendere rugby e vita alla stessa maniera.

E pure devastante in difesa.

Solo che anche la Francia non è male.

Non è male per niente, visto che ha appena vinto a mani basse il Cinque Nazioni. Ci sono personaggi come Merle, seconda linea, detto “l’uomo e mezzo” per la stazza e per la sua capacità di essere ovunque. Ci sono Fabien Pelous e Raphael Ibanez. Mostri sacri come Sadourny e Saint-André. Ne mancano parecchi, perché la Federazione ha dato loro il via libera dopo il Grande Slam. Pierre Villepreux, che allena i francesi in coabitazione con Jean-Claude Skrela,  conosce benissimo gli italiani ed è l’unico a cercare di raffreddare gli animi, a dire che giocare ad una settimana dalla fine del Cinque Nazioni non è un’agevolazione. Non lo ascoltano, o lo fanno in pochi. Guy Accoceberry, che è uno degli eroi decorati del 2 a 0 agli All Blacks nel 1994, racconterà qualche anno più tardi del fatto che in tanti avevano sottovalutato la partita. Più di qualcuno si presenterà a soli due giorni dal match, altri marcheranno visita. Ma non è solo questo: i francesi acconsentono di far giocare il match a Grenoble, città vicina al confine e tra le più densamente popolate da italiani, soprattutto di seconda e terza generazione. Guantai, soprattutto, ma anche rugbisti, come Sergio Lanfranchi, ben presto rinominato Sergiò, che quando sei nelle loro grazie l’accento scivola alla fine che è un piacere.

Coste e Giovanelli lo sanno, lo sapevano già.

E decidono di usare tutta la tattica psicologica di cui dispongono.

Appena arrivati in città portano i ragazzi in giro per le strade. Incontrano friulani, siciliani, qualche pugliese. Tutta gente che crede, tutta gente che ha voglia di sorridere dopo anni di spocchia transalpina nei confronti dei Ritals, di ricerca di un barlume di dignità dopo gli oscuri tempi della guerra e dell’emigrazione. Tanti ce l’hanno fatta, mica hanno dimenticato battute, commenti e trattamenti di sfavore.

E vuoi mettere far loro uno sgambetto epocale?

La partita cominciamo a vincerla qui, Grenoble è già nostra.

Skrela e Villepreux schierano una formazione forte, pesantissima in mischia (Merle, Pelous e Miorin fanno quasi 400 chili in tre) e molto talentuosa al largo. Ci sono tanti assenti, due su tutti il capitano Benazzi e l’ala Leflamand, una vera iradiddio, ma dall’altra parte del campo c’è sempre la squadra detentrice del Grande Slam.

Noi siamo in formazione tipo, siamo pronti e abbiamo anche superato qualche screzio, prima di salire sul pullman per Grenoble.

Capita anche nei gruppi più affiatati.

Prima di arrivare a Grenoble siamo di stanza a Chieri. Il primo campo adottato non è il massimo della vita, si va dieci chilometri più in là. Bene o male arrivano tutti, manca Properzi, trattenuto a lavoro e non avvertito del cambio di programma.

Kino è fisicamente spaventoso, sono in molti a dire che uno come lui, con gli allenamenti di oggi, sarebbe un’arma illegale, ma a detta di tutti è un pezzo di pane.

A patto non gli vada giù la tendina.

A Chieri gli si abbassa di un bel po’.

Ha uno screzio con capitan Giovanelli, i due vanno vicini a mettersi le mani addosso. E chi ci prova a separarli due del genere? Gli animi poco a poco si raffreddano, si sale in autobus.

In spogliatoio è Giovanelli a parlare. Tocca le corde giuste, ricorda a tutti che là fuori c’è gente che cerca un motivo per sorridere e che oggi glielo si può dare. Dominguez e Pertile, che dell’emigrazione sono figli, sono forse i più toccati. Coste è compiaciuto, parla poco, “Dai che stasera si beve champagne”. “Dai ragassi che la vinciamo”.

I francesi cominciano fortissimo, vogliono risolverla subito, ma gli italiani entrano in ogni raggruppamento come fosse l’ultimo della loro vita: masticano terreno, polvere, grattano via palloni.

Come quello che arriva a Ivan dopo pochi minuti, non c’è la seconda linea di difesa, passa in mezzo a Delaigue e Ogier e corre. Meta. Nell’appoggiare l’ovale però si fa male e deve lasciare il campo. Esce in lacrime, anticipando quelle che verseremo noi un paio di anni dopo quando l’avversario più tosto non abboccherà alle sue finte. Prima di uscire, però, si immola su Costes, terza linea di Montferrand, ormai lanciato in meta.

Soffriamo in touche, loro mettono sistematicamente Merle nel primo blocco, ce ne ruberanno quattro in 80 minuti. E soffriamo pure in mischia: i francesi schierano come pilone sinistro Marc de Rougemont, un comodino di un metro e 75 centimetri. Properzi, che ce l’ha davanti, è 13 centimetri più alto e fatica. I francesi passano con una meta tecnica dopo un suo crollo in mischia, l’arbitro non vede l’affossamento del dirimpettaio francese. Da qui in avanti loro cercheranno la via della testuggine più volte, ma non si passa più. Si sfidano al piede Dominguez e Aucagne, apertura di Pau. Poi Julian Gardner sfonda sugli sviluppi di un calcio battuto veloce da Troncon e ci riporta avanti. Placchiamo fortissimo, siamo ovunque, i francesi piano piano si rendono conto che il compitino auspicato non può bastare contro quelle furie.

Non possiamo giocare così per 80 minuti, dicono. A

Troncon si apre il sopracciglio già ferito la settimana precedente durante un decisivo Milan-Treviso. Ironia della sorte: a ferirlo sette giorni prima era stato Diego Dominguez in un raggruppamento. Esce a cavallo dei due tempi, entra Gianluca Guidi.

Nella ripresa i francesi crescono e cominciano a crederci: Bondouy pareggia i conti prendendo un angolo immarcabile.

Poco dopo Giovanelli perde un pallone in un raggruppamento e Accoceberry calcia malignamente nei nostri 22. È forse il nostro momento, considerato come istante, più difficile. È il momento in cui, di solito, i francesi accelerano e chiudono il match. Va sempre così, se si esclude la magica serata di Monigo.

Ma come fai a fermare l’inesorabile?

Come è possibile gestire il ritorno dell’avversario sulla carta più forte, dosare le energie in vista di un finale probabilmente in riserva?

C’è Vaccari sulla palla, ma non la controlla, rimbalza due, tre volte. Quasi la tocca, e sarebbe mischia francese nei nostri ventidue. Gli piombano addosso Benetton e Saint-André, ma lui va oltre.

Non si sa come, ma lui è oltre. Palla in mano.

Serve Mazzariol accalappiato. Troncon, fuori per Dominguez, internata per Vaccari, ancora lui. È la famigerata giocata Springboks, dal nome della prima squadra che l’ha subita. Poi Bordon, Pertile, usciamo dai 22. Ancora Troncon, ancora Dominguez, ancora Vaccari. Ancora tre uomini davanti, tutti sverniciati con un cambio di passo allucinante. Poi è il turno di Marcello Cuttitta, subito preso, ma l’offload per Troncon è da manuale. Il nostro numero 9 è nei 22, i francesi lo puntano, sono di più, lui cambia senso e passa ancora. Ti aspetti arrivi Vaccari, che la palla l’ha presa tre volte. Ti aspetti Pertile, e la sua corsa caracollante. Pure Dominguez, che sul breve non ha tanto da invidiare a trequarti sulla carta ben più dotati.

No, niente di tutto questo.

A ricevere la palla c’è Croci Giambattista, classe 1965, da Ascoli. Professione seconda linea. Una chierica che gli affibbia più dei 32 anni che realmente ha. C’è anche lui in campo, non lo ha visto quasi nessuno, lo hanno sentito in tanti tra i francesi. Lavoro sporco, placcaggi, difesa, lui insieme a Cristofoletto a tenere su una mischia in carenza di chili. Qualcuno un giorno, un pilone della Nazionale, gli chiese se un giorno o l’altro si sarebbe scomodato a spingere un po’ in mischia.

Lui rispose “Perché, sei mai andato indietro?”.

La prende lui la palla e la porta oltre la linea.

Viene giù tutto. Anche perché, oltre a tutti gli emigrati italiani, in tremila hanno valicato le Alpi per godersi un weekend di gloria ovale.

Eccolo l’attimo che cambia tutto, la soddisfazione eterna in pratico formato tascabile da 38 secondi, perché i francesi accusano il colpo. Dominguez centra i pali due volte, poi si accende Gardner, che sembra una versione in fast-forward dell’Ulisse Trevisin portato al successo da Marco Paolini: dove passa lui se pol semenare. Serve Vaccari ai 5 metri, quarta meta, 20 punti di vantaggio. Giovanelli e Properzi invitano a modo loro i più giovani a giocarla ancora, che non è finita. I francesi segnano due mete, ma è tardi, al fischio finale gli italiani presenti allo stadio invadono il campo.

Sembra quasi la scena finale di Fuga per la vittoria, solo che qui non scappa nessuno. Tutti vogliono rimanere lì, a capire se gli ultimi ottanta minuti fossero stati solo un sogno o se veramente gli azzurri avessero spennato i galletti. Nessuno se ne va da Grenoble: ragazzi di Villorba preparano le griglie nei parcheggi e per la strada, spuntano salumi e vino, soprattutto prosecco.

E chi vuole andarsene?

In verità una persona che vorrebbe essere lontano da lì ci sarebbe.

È francese, ma oggi non ha perso. È piccolino, argenteo in testa, irriducibile nel suo modo di esprimere felicità e soddisfazione. Irrefrenabile numero 9 da giovane, irrequieto allenatore da grande. Vorrebbe essere alla dogana e avere di nuovo davanti quel gendarme irridente. E lo cercherà, nel viaggio di ritorno, invano. Gli lascerà un biglietto, poi salirà di nuovo a bordo dell’autobus, dove già aveva dato spettacolo con uno spogliarello. Gli altri se la ridono di gusto. Succede, a volte. A noi italiani meno che agli altri, ultimamente. Quaranta secondi, brevi, brevissimi, infiniti. Che sembrano lunghi anni. Decenni, quasi.

Fanno presto a passare quando si resta fermi e non ci si muove, come quel pullman che tanto ci fece sognare. Un pullman partito in un caldo pomeriggio del Midi francese, tra gente in bermuda e gendarmi quantomeno poco avveduti. Che certi viaggi sai (forse) dove ti portano ma mai quando iniziano realmente.

Viaggi di quattro, cinque, vent’anni, forse di più.

Viaggi per perdersi e ritrovarsi, il più possibile.

Bonne chance, Italie.