“Ragazzo, sarò franco. Sei il quinto mediano nella mia gerarchia, stando così le cose vedrai la tribuna anche nei test di metà settimana. Vedi tu cosa fare”.

John Mitchell ha un discreto curriculum da giocatore e allenatore, c’è poco da dire. È uno dei soli tre giocatori ad aver giocato, capitanato e allenato gli All Blacks nell’arco di una sola vita. Ha una cultura sportiva e ovale enorme, si è a lungo ispirato a Phil Jackson, coach NBA che ha vinto qualcosina nella sua carriera e che ha lasciato qualche massima di un certo spessore. Solo che, chi ha avuto a che fare con Mitchell, si è reso conto di aver a che fare con almeno due persone racchiuse nello stesso corpo: una brillante, avanti di anni dal punto di vista della gestione di una squadra, coraggiosa, l’altra più complessa, introversa, molto meno comprensibile dal lato umano. La prima è quella che ha portato a testare il livello di alcool nel sangue dei suoi giocatori. Per carità, è il primo a bersi due birre al pub, ma in campo si va sobri e in forma. L’altra è quella che ha tagliato fuori dagli All Blacks gente come Taine Randell, Scott Robertson, Jeff Wilson e soprattutto Chris Cullen senza nemmeno la cortesia di una chiamata. Quella che lascerà in panca un certo Dan Carter quando i suoi All Blacks avranno estremo bisogno di uno che la buttasse dentro con buona frequenza.

E quella che presenta al ragazzo la cruda verità proprio quando tutto sembrava andar meglio.

Perché il ragazzo in questione è uno che si è fatto tutta la trafila delle nazionali australiane, è arrivato ad un passo dal titolo mondiale under 21, ha conquistato la convocazione per la Nazionale Seven, ma che sul più bello ha dovuto patire ripetutamente problemi all’inguine. Nel 2005 era nella rosa dei Reds, ma non riesce quasi mai a scendere in campo. E, a fine stagione, lo staff gli dice che per la stagione 2006 hanno già scelto un ragazzino che sta facendo il fenomeno al piano di sotto, tale Berrick Barnes. Per lui, al massimo, in programma ci sarebbe una bella dose di panchina. Arriva quindi ai Force, franchigia appena nata e alle prese con le difficoltà di chi debutta in un torneo in cui gravitano squadre più scafate. Si perde spesso, manca amalgama, tanti ragazzi sono alla prima esperienza a questo livello. Giornata dopo giornata le prestazioni migliorano, fino a che i Force si prendono la soddisfazione di costringere al pareggio i Crusaders futuri campioni. Il ragazzo segna la seconda meta appena un minuto dopo il suo ingresso in campo e finalmente può sorridere.

Peccato che, due giorni più tardi, i Force annuncino l’acquisto di Matt Giteau per la stagione 2007.

E allora Mitchell, che di quei Force è l’allenatore, parla chiaramente al giovane.

Ecco, col senno di poi siamo bravi tutti. Saremmo tutti in grado di vincere una Coppa del Mondo allenando la Namibia. E, a ben guardare le possibilità in mediana di quella squadra, quel ragazzo non l’avremmo messo al quinto posto. Certo, in un florido vivaio di talenti in grado di giocare ad alto livello almeno in due ruoli nevralgici, ecco, un mediano di apertura puro parte svantaggiato. Ma non certo dietro a James Hingeldorf, visto anche a Viadana e ben presto tornato al rugby domestico australiano. Non dietro a Lachlan McKay, un cap con l’Australia, anche lui fuori dai radar dell’alto livello dopo il 2008. Almeno alla pari con Ryan Cross, gran giocatore anche nel league. Forse solo Matt Giteau lo avrebbe sopravanzato, dopo anni di panchina alle sue spalle nelle giovanili.

Nel 2006, però, a fare le valigie è Brock James, venticinquenne di Victoria. È una di quelle storie destinate a passare per un mare di delusioni, prima di emergere in un cielo di successi. Non andrà altrettanto bene ai Force, che arriveranno sì settimi nel 2007, ma poi si inabisseranno tra stagioni anonime e un John Mitchell incapace di tenere insieme lo spogliatoio.

A luglio del 2006, però, Brock non ha una squadra. Nell’emisfero sud è difficile, nel pieno dell’inverno australe, trovare rose di livello ancora in via di allestimento. Taranaki se lo riprenderebbe anche subito, dopo la buona vena del 2004. Ma non ci sono possibilità di salire al piano di sopra, la NZRU ha posto il veto sui giocatori non neozelandesi nelle franchigie. Non è facile: la scelta è tra una stagione senza contratto e una carriera fuori dai grandi palcoscenici.

L’empasse si sblocca quando si fa vivo Vern Cotter. Cotter ha appena lasciato i Crusaders, dove allenava la mischia, per accasarsi a Clermont, in Francia. Clermont ha una buona squadra, ma è a corto di mediani di apertura dopo il ritorno a casa di Stephen Jones, desideroso di giocarsi a Llanelli le sue chance di convocazione per la Coppa del Mondo dell’anno successivo. L’allenatore neozelandese aveva già pensato di portare con sé Cameron McIntyre, back-up di Dan Carter proprio ai Crusaders desideroso di trovare un po’ di minutaggio tutto per sé, ma Castres fa un’offerta migliore e se lo porta a casa.

No, non si può fare una stagione con un solo numero 10 di spessore internazionale, ossia il figiano Seremaia Bai. E allora James viene ingaggiato praticamente seduta stante.

Gli scetticismi durano il tempo di un paio di partite, poi in tribuna si comincia a darsi di gomito. No, un numero 10 del genere in Australia non poteva interessare. Uno così, a fare i conti con un secondo playmaker con la voce grossa, sarebbe stato veramente sprecato. Brock James, nonostante i problemi di orientamento che possono avere gli australiani che rimangono troppo distante da una spiaggia per troppo tempo, è un mediano di apertura che sembra fatto apposta per il gioco dell’emisfero nord. Meglio, sembra fatto apposta per un certo tipo di rugby francese: vario, divertente, scanzonato. Non sai mai cosa possa partire da quella centralina. Ha un piede che è come la mano di Mario Brega, po esse fero e po esse piuma. Può mandare nel panico qualsiasi triangolo allargato con lunghi calci tattici, può gettare nello sconforto seconde linee di difesa troppo arretrate con calcetti a scavalcare.

Non parliamo dei pali.

Può correre, può depositare passaggi che sembrano endecasillabi.

Ecco, magari non è un drago in difesa, ma con il panico che semina in attacco uno così non può non giocare.

Uno così fa vincere le partite.

Anche perché per le prime tre stagioni a Clermont è il capocannoniere del Top14, cosa non semplicissima se in Francia in quegli anni gravitano sir Jonny Wilkinson e Robocop, alias Roman Teulet, il giocatore più prolifico di sempre nella storia del campionato francese. E fa il diavolo a quattro pure in Challenge Cup, dove trascina i suoi al titolo segnando dodici punti in finale.

Uno così le partite le fa vincere.

Ecco, non proprio tutte.

Perché Clermont, tra la prima e la seconda decade del ventunesimo secolo, si dimostra squadra col braccino: tanto brava e splendida in stagione quanto maldestra e pasticciona nelle fasi finali. Vinceranno il primo titolo nel 2010, dopo dieci finali perse. Il finale di stagione di Brock, però, non è dei migliori: dopo un girone eliminatorio da leader, è il principale responsabile della sconfitta ai quarti di Heineken Cup contro il Leinster, in quella che forse è la sua peggiore prestazione di sempre sul suolo europeo: manca quattro calci di punizione, tre drop e una trasformazione, per un totale di ventitré punti, in una partita dominata dai Les Jeunards a Dublino. Brock perde la lucidità negli ultimi minuti, sbaglia calci che non butterebbe fuori nemmeno da bendato, sta di fatto che da lì a fine stagione la responsabilità dei calci se la prenderà Morgan Parra. Si prenderà una discreta rivincita nella semifinale del campionato francese, segnando nei supplementari contro Tolone un drop da 60 metri che scaverà il solco definitivo.

Rimane a Clermont fino al 2016, poi si trasferisce a La Rochelle. Chi l’ha visto a Treviso, in occasione di un incontro di Challenge Cup, racconta di un campione che per forza di cose non poteva più avere le gambe dei bei giorni, ma che quel pallone lo metteva sempre e solo dove voleva lui. Passerà pure per Bordeaux, poi tornerà sull’Atlantico a vestire il giallo nero, fortemente voluto dal nuovo coach, Ronan O’Gara, uno che qualche partita da numero 10 l’ha giocata, in carriera.

Non è sempre il primo mediano nella gerarchia dell’irlandese, se la batte alla pari col neozelandese Ihahia West e con Jules Plisson, talento francese che forse ha già dilapidato le sue fiches internazionali.

A fine stagione, molto probabilmente, farà di nuovo le valigie.

Non si sa dove andrà, né se giocherà ancora a rugby.

In qualsiasi posto decidesse di andare, comunque, emergerà in un cielo di successi.

Speriamo senza passare prima per altri mari di delusioni, infortuni o allenatori in alcune circostanze forse troppo frettolosi.

Noi, col senno del poi, vinceremmo i Mondiali con la Namibia.

In cabina di regia, per un Brock James, ci sarà sempre posto.

Non sappiamo se in panchina metteremmo mai John Mitchell.

Spiace, è la cruda verità.