Prima meta dopo nemmeno due minuti, punto di bonus dopo dodici, sessantanove punti nel carniere a fine primo tempo, cento punti quando la ripresa deve ancora scollinare. Cronaca di una morte annunciata? Certo, se masticate un po’ di rugby.

Ma se è vero l’assunto per cui lo sport ovale è tra i più crudi e veritieri in termini di forze in campo, allora il match tra Australia e Namibia andato in scena alla Coppa del Mondo del 2003 dovrebbe essere una delle pietre miliari del rugby. Dovrebbe star lì a ricordare che certi giorni è durissima stare su un campo di gioco. Che certe giornate, se cominciate col piede storto, non si metteranno mai in piedi da sole. E, dulcis in fundo, che quando decidi di non giocartela fino in fondo rischi seriamente di finire dalla parte sbagliata della storia.

Perché la Namibia, il 25 ottobre del 2003, ha deciso di entrare nella storia dall’ingresso sul retro. E ci arriva con una selezione zeppa di amatori, qualche professionista senza troppi minutaggi nelle gambee un allenatore con un buon futuro alle spalle e una ars diplomatica non troppo sviluppata. Avevano debuttato in Coppa del Mondo nel 1999 collezionando due durissime sconfitte da Canada e Fiji e una meno severa dalla Francia. Messa la nazionale nella cartina geografica ovale, si pensa a mettere le basi per una prima storica vittoria mondiale. D’altronde nel Paese i presupposti fisici ci sono: non è un problema trovare una prima linea di 120 chili, né una seconda di due metri, né un trequarti con le fibre giuste. D’altronde nel loro primo anno da nazione indipendente i namibiani sbaragliarono tutti: tra tutti due volte l’Italia, l’Irlanda, la Scozia. Ecco, si rivelò un po’ meno facile trattenere i giocatori veramente forti, come Percy Montgomery, finito nelle trafile giovanili sudafricane prima del 1990, anno di nascita della repubblica. Ci riescono con Kees Lensing, pilone molto strutturato, convocato dagli Springboks under 21, ma trattenuto a casa da un infortunio e dalla malcelata voglia di rappresentare la sua Nazionale. i Welwitschias si qualificano abbastanza agevolmente per la finale continentale, ma per strappare il biglietto per l’Australia devono prima vedersela con la Tunisia. Andata e ritorno, due partite agoniche. Alla fine dei 160 minuti il confronto è pari, vittoria tunisina di 7 punti a Tunisi, vittoria namibiana a Windhoek con lo stesso scarto, ma passano quest’ultimi grazie alle quattro mete spalmate nei due incontri.

Non è un bel segnale, non dominare il torneo di qualificazione africano.

Si Ci sono tante cose da fare, tanto su cui mettere le mani, anche perché il girone è veramente tosto. Nel giro di due settimane, infatti, si dovranno affrontare Argentina, Irlanda e i campioni del mondo australiani. Poi, cinque giorni dopo, la Romania, squadra più abbordabile delle altre, ma con trecentoventi minuti di fuoco nelle gambe. È un calendario che farebbe tremare i polsi a squadre molto più quotate, figuriamoci se la cosa non spaventa i namibiani. Namibiani che nel frattempo riescono a raccattare i due o tre giocatori più forti del loro movimento. Heino Senekal, per esempio, seconda linea di stanza a Cardiff, ottimo saltatore e buon lettore degli schemi avversari. Hakkies Husselman, solido mediano di mischia di Western Province, dotato di buon ritmo e di discrete gambe. Kees Lensing, pilone di cui sopra. Stop, altri di quel livello non ce ne sono. Poi si pesca nel campionato locale e nelle panchine della Currie Cup. Il materiale umano non è tantissimo, spicca fra tutti la storia di Willie Van Vuuren, medico umanitario che nel 2003 parteciperà sia ai Mondiali di rugby che a quelli di cricket, ma poco altro.

Se escludiamo l’allenatore.

Dave Waterston, neozelandese che ha fatto fortuna come assicuratore in Sudafrica. È stato il video analyst degli Springboks alla Coppa del Mondo del 1995 ed ha allenato Tonga nel 1999. Dirà di aver smesso di fumare nel 1985, ma verrà pizzicato con sigaretta spiegata in mano nella sua cabina durante il match contro l’Irlanda, che se permettete è uno dei cinque aneddoti della Coppa del Mondo. Non è esattamente un diplomatico, se deve dirti una cosa non ci pensa due secondi, cosa buona se lo fai con i tuoi giocatori, meno se parli degli arbitri. Ma questo lo riprendiamo dopo.

Waterston organizza tre partite di preparazione alla Coppa del Mondo: arrivano due vittorie contro Kenya e Uganda e una sconfitta casalinga contro Samoa. La squadra è volenterosa, ardimentosa, ma i fondamentali sono carenti: non si contano i palloni persi, né i placcaggi lisciati. Per non parlare della disciplina, troppo carente soprattutto tra le terze linee.

Il tempo però è poco, si fa quel che si può, i Pumas sono alle porte. I ragazzi di Waterston non cominciano nemmeno male. Sì, d’accordo, prendono due mete quasi subito, ma lottano e danno battaglia agli argentini. Husselman è intraprendente, ma predica nel deserto. Di solito la sua spinta e le sue idee durano lo spazio di due, massimo tre fasi, poi si disuniscono tutti. Ricevere l’ovale diventa affare di chi è più vicinoo di chi ha più dimestichezza nel controllarlo. Logico che la benzina prima o poi finisca, con Ledesma e compagni a far breccia spesso e volentieri nelle voragini difensive namibiane. Contro l’Irlanda il copione non cambia, ma Waterston sbotta: viene ammonito Senekal per un fallo di gioco, ma viene graziato O’Connell per uno stamping mai veramente fatto passare per altro. L’allenatore della Namibia perde il controllo, verrà multato per frasi tipo “Se quello fa il dentista come arbitra, i miei denti li vedrà da molto distante” (ironizzando sulla prima professione del l’arbitro australiano Cole) e per dire che sì, certi arbitri preferiscono leccare il sedere (letterale, dice proprio “licking the back side”)alle grandi squadre che arbitrare in modo equo. O’Connell non verrà nemmeno citato.

Nel frattempo però manca poco alla sfida contro l’Australia. I Wallabies sono campioni del mondo in carica, giocano in casa e hanno deciso di onorare il torneo schierando una squadra ancora più forte rispetto a quella di quattro anni prima. Contro gli africani restano a riposo fenomeni come George Smith, Wendell Sailor, la mediana Gregan-Larkham, ma Eddie Jones non è tipo da perdere nemmeno a scopone scientifico al bar sotto casa, figuriamoci se vuol fare brutta figura ad un Mondiale: manda in campo gente come Tuqiri, Latham, Giteau, Mortlock, Rogers, Lyons e, più in generale, una squadra che arriverebbe in semifinale, contro altri avversari, senza mettere la quarta. Waterston, invece, si ritrova a fare i conti con un calendario diventato tiranno e un’infermeria riempitasi sempre di più: sul suo calendario personale c’è un circoletto rosso in corrispondenza col giorno della sfida con la Romania, in programma solamente qualche giorno più tardi, ma sa benissimo che scendere in campo con i rincalzi contro l’Australia significa mettere in scena una vera carneficina, perché la panchina lunga da quelle parti la otterrebbe solamente con dell’altro legno.

E carneficina sia, ci si gioca tutto a Launceston.

Quel che succede ad Adelaide non è nemmeno divertente: prima meta dopo nemmeno due minuti, punto di bonus dopo dodici, sessantanove punti nel carniere a fine primo tempo, cento punti quando la ripresa deve ancora scollinare. I namibiani ci provano pure a placcare tutto quel che si muove, ma almeno la metà di quelli che sono in campo ha al massimo fermato qualche madascio, qualche tunisino. Al limite un argentino. Come fai, con un background risicato come questo, a fermare uno come Latham o Tuqiri lanciato in corsa? O come fai a prendere Giteau se non riesci non tanto a seguire, quanto nemmeno a prevedere il cambio di direzione? I Welwitschias tengono palla per ventisette minuti senza costruire più di un paio di fasi alla volta, arrivano sì e no due volte nei 22 australiani sotto gli scroscianti applausi del pubblico, lisciano 81 placcaggi.

Cronaca di una morte annunciata? Certo, se masticate un po’ di rugby.

Ma se è vero l’assunto per cui lo sport ovale è tra i più crudi e veritieri in termini di forze in campo, allora il match tra Australia e Namibia andato in scena alla Coppa del Mondo del 2003 dovrebbe essere una delle pietre miliari nella storia del rugby. A ricordarti che quando la differenza è molta e per di più decidi di non giocartela fino in fondo rischi seriamente di finire dalla parte sbagliata della storia. I Wallabies rendono onore ai namibiani fino all’ultima azione e varcano la linea di meta per ventidue volte, finisce 142 a 0.

Si cerca di provare il tutto per tutto contro la Romania, quarta forza del girone, battuta sonoramente da tutte le altre squadre del girone. Quelli però saranno pure molto più deboli di irlandesi, Pumas eWallabies, ma sono comunque un gruppo con pochi atleti amatoriali, giocano quasi tutti in Francia. Waterston mette in campo chi aveva riposato ad Adelaide e tutti quelli risparmiati da botte e infortuni. In alcuni ruoli non c’è più nessuno da schierare, sta di fatto che ad estremo gioca un mediano di mischia e Wessels, che sarebbe l’apertura titolare, gioca primo centro. In mediana ci finisce Schreuder, che ha il brutto primato del peggior calcio di punizione in touche contro gli australiani (0 metri guadagnati). Su di lui aleggia la triste sensazione che ogni calcio tattico provato finirà molto distante dal punto in cui avrebbe dovuto spiovere il pallone.

Non finisce bene, a fine primo tempo i romeni sono avanti 32 a 0, Husselman e compagni hanno già lisciato 27 placcaggi. Gli ultimi quaranta minuti del mondiale namibiano e romeno sono un ballo in cui nessuno segue i passi e tutti si pestano i piedi. Arriverà una meta per parte, per gli europei segna Sauan, in forza al Rovigo, poi si va a casa a pensare sugli errori commessi.

Che non sono pochi, e nemmeno leggeri.

Di coach Waterston non si è più saputo nulla. Non risulta abbia allenato altre squadre dopo quella Coppa del Mondo, né che abbia proseguito sulla sua strada ovale. Forse è tornato nel suo mondo delle assicurazioni, forse è tornato a fumare con costanza.

I Welwitschias, invece, qualche progresso da allora l’hanno fatto: devono ancora cancellare lo zero dalla voce “vittorie in Coppa del Mondo”, perdono ancora nettamente contro le grandi potenze, ma poco a poco il rugby namibiano è entrato nel mondo del professionismo dalla porta giusta.

Quella sbagliata, purtroppo, l’avevano già aperta ad Adelaide. E non fu un gran spettacolo.