terremoto-friuliIo, in quel lontano 6 maggio 1976, c’ero. O per meglio dire arrivai il giorno dopo. Ricordo, infatti, che alla notizia del terremoto in Friuli Venezia Giulia mi precipitai in garage, presi la macchina e mi diressi verso le zone colpite dalla calamità naturale. Perché? Semplice avevo due carissimi amici che vivevano in Friuli, ex compagni di squadra e non potevo starmene con le mani in mano. Mia moglie, come sempre, capì e mi osservò partire dalla terrazza, ho ancora in mente il suo sguardo compiaciuto, riflesso nello specchietto retrovisore della macchina. Il viaggio fino in Friuli fu lungo e difficile, in tanti si stavano muovendo per dare una mano, in tantissimi erano sfollati e le zone non erano facilmente raggiungibili, perché tutto e dico tutto, era sotto sopra, nel vero senso della parola. Venni fermato definitivamente a Udine. Sistemai la macchina dove mi dissero e mi misi a disposizione. Il mio unico pensiero era ritrovare, o quanto meno avere notizie, di Mario e Guido, rispettivamente seconda linea e trequarti ala, della mia vecchia squadra. Tuttavia, davanti a tanta sofferenza, misi da parte le mie ricerche e tentai di aiutare alla bene e meglio. Non voglio entrare nei particolari perché, a distanza di tanti anni, ripensare a qui giorni è sempre molto dura. Quello che mi sento di dire è che c’era un clima surreale, fatto di silenzi, scricchiolii e tanta, tanta paura. Perché davanti alla stupidità dell’uomo si può fare qualcosa, ma davanti alla potenza della natura è tutto molto più complicato. Si susseguirono numerose scosse e ogni volta tutto si fermava, quasi ad aspettare quella davvero forte che avrebbe distrutto, nuovamente, tutto come il 6 maggio. Conobbi Alpini votati al soccorso, macellai milanesi accorsi per dare un sostegno (vero, portavano la loro carne in furgone; avevano chiuso la macelleria, l’avevano svuotata e si erano diretti a dar man forte), panettieri padovani con filoni di pane al seguito e tanti ragazzi giovani e meno giovani, intenzionati solo ad aiutare, in qualsiasi modo. Un passo alla volta arrivai nelle zone maggiormente colpite, attorno a Gemona del Friuli, dove non c’era più nulla; solo macerie, sofferenza e tanto dolore. Cosa mi colpì di più? Che un popolo letteralmente a terra, come quello friulano, non piangeva, ma provava a reagire…lavorando su quello che rimaneva della propria casa, oppure sostenendo il vicino. Nella salita da Udine alle zone del gemonese vidi di tutto e feci le cose più diverse: da spostare macerie (chiaramente), ad innalzare tende, a cucinare improbabili stufati a raccontare storie a bambini in cerca di conforto. Una volta arrivato, la distruzione era inimmaginabile o, quanto meno, difficile da raccontare a parole e la mia convinzione (speranza) di ritrovare vivi Mario e Guido sempre più debole. Così dopo l’ennesima nottata passata a scavare, spostare, confortare, aiutare, ecco un viso conosciuto: era mattina presto e in lontananza, nel bel mezzo di un campo, pieno di tende di fortuna e ripari, ecco apparire un omone, completamente sporco di terra e ghiaia, che giocava con un gruppo di bambini, passandoseli da un braccio all’altro come niente fosse (era alto due metri, per oltre 115kg di peso). Mario alzò gli occhi, mi riconobbe e crollo a terra in ginocchio, ci abbracciammo e piangemmo a lungo, uno di quei pianti liberatori. Mi disse che aveva, purtroppo, trovato Guido sotto tante macerie, morto; aveva scavato con tutte le sue forze, perché era il suo migliore amico e non poteva pensare di averlo perso, aveva i polpastrelli e le mai rovinate, ma invece di farsi prendere dal dolore, aveva deciso di reagire ed erano giorni che non faceva altro che aiutare. Gli chiesi di casa sua. Mi disse che non c’era più, ma che, con un po’ di sforzo, passata la paura, se la sarebbe ricostruita. Gli chiesi della sua mamma. Mi disse che non ce l’aveva fatta. Gli chiesi dei suoi animali. Mi disse che era riuscito a salvare solo i due cani. Poi m’interruppe e fu lui a chiedermi come stavo? Quasi preoccupato. Poi dopo una lunga pausa sottolineò: perché sei qui? Io sorrisi. “Mario, abbiamo diviso gioie e dolori in un campo da rugby per tante stagioni. Quando è nato mio figlio c’eri, sei arrivato in ospedale con un nocciolo in vaso, per festeggiare una nuova vita. All’incontro con Caterina (mia moglie) sei stato uno di quelli che ha riso di più per la mia aria ebete da “colpo di fulmine”. Ora vuoi dirmi che un terremoto avrebbe dovuto fermarmi e impedirmi di venire a cercarti?”. Ci fu un lungo silenzio. Lavorammo tanto i giorni seguenti e ci frequentammo fino a due anni fa, quando anche Mario, da buon rugbista, ha passato la palla, dormendo, nella sua casa, ricostruita mattone su mattone con le sue grandissime mani.

Dedicato a Mario, sognatore esemplare e Guido, che ha passato la palla davvero troppo presto.

@anonimorugbista