Piove. È domenica mattina e piove. Bel clima se la prospettiva è quella di rimanere a ingrassare le coperte e a pensare a quanto si possa star bene là sotto, tra coperte, cuscini e federe. Diversa è la situazione se la sveglia ha già cominciato a cantare. Non sono mai stato un fan delle sveglie impostate a orari improponibili, ma allo stesso tempo non mi è mai pesato granché l’essere mentalmente e fisicamente attivo nelle prime ore del giorno. Oh, sono pur sempre uno sportivo, la domenica per me non è mai stato un giorno come gli altri. Nel giorno in cui qualcuno decise che sarebbe stata cosa buona e giusta riposarsi io avevo due alternative: o prepararmi per la partita, o recuperare dai postumi della partita del sabato. Dipendeva dalla categoria, dall’età e dai calendari che qualche buontempone ci rifilava. In nessuno dei due casi, comunque, riuscivo a collezionare ore su ore di sonno, vuoi perché l’attesa del match a volte era spasmodica, vuoi perché le botte e i placcaggi del giorno precedente si facevano vivi solamente quando gli occhi decidevano di spalancarsi. I placcaggi, a volte, sono matematica applicata alla vita.

Certo, nemmeno la notte prima della partita è facile dormire, pioggia o non pioggia. Prendo mamma e la porto a fare colazione. Si è fatta duemila e passa chilometri per venirmi a sostenere qui in Friuli. Qualche anno fa si sedeva comoda alla RDS Arena, immersa nel blu, nel bianco e nel nero di quello stadio e di quelle bandiere. Sono passati tre anni, ad accoglierla oggi ci saranno la pioggia, la balaustra e posti in piedi a sazietà. Nessuno si lamenterà di questo. Né lei, né il sottoscritto. No, non c’è niente di cui lamentarsi, quando di mezzo ci sono una palla ovale, un rettangolo verde e dei pali piantati all’estremità. Non dopo tutto quel che mi è successo, non dopo quel tacchetto nell’occhio. Non dopo quell’uscita con gli amici a Galway. Finché nella mia vita barcollerà un pallone da rugby non mi lamenterò. Piove ancora, il campo è fradicio e pesante. Stanno giocando i ragazzi dell’under 18. Ne conosco più di qualcuno, visto che li ho aiutati negli ultimi mesi. Allenati e aiutati. Sono arrivato qui qualche anno fa, stavo male. Non potevo giocare a rugby, né riuscivo ad estirparlo da me. Mai avrei voluto estirparlo da me, però, dissero, era il caso di cambiare aria. Giocare no, era tutto finito. Ma allenare sì, certo che avrei potuto farlo, dissero. Meglio se in un paese in cui il rugby non fosse stato tra gli sport più seguiti. Trovarono un accordo con una società del Nordest, il Leonorso Rugby Udine, quarta serie italiana. Avrei dovuto allenare gli under 16 e, nel frattempo, mi sarei cimentato con la lingua italiana. I primi tempi non sono stati facili, ma questo era preventivabile. L’anno scorso a sostenermi arrivò mio fratello, aveva intuito che in me c’era qualcosa da sistemare. Poi, parola dopo parola e allenamento dopo allenamento, sostegno dopo sostegno, sono migliorato. Nel dubbio, quando posso, dico “Mandi”. E i ragazzi mi seguono, qualcuno ha anche belle potenzialità. Chissà, sarebbe bello giocare con qualcuno di loro, un giorno. Arrivano anche gli altri. Nella quarta serie italiana non esistono giocatori professionisti. Ci sono impiegati, operai, studenti. In tutta la serie forse qualche giocatore con quarti di nobiltà ma ormai prossimo alla pensione, ma la maggioranza di chi calca questi campi gioca a rugby per passione. Negli spogliatoi si chiacchiera. Non necessariamente di rugby. io, nel frattempo, indosso i miei occhiali. Li hanno studiati e perfezionati a Bologna. Con questi, e con la collaborazione di World Rugby e della Federazione Italiana, sono riuscito ad avere la possibilità di tornare a giocare a rugby. Non li ho indossati molto, giusto in allenamento, oggi anche loro sono al debutto stagionale. A dire la verità la cosa mi impensierisce un po’. Certo, in settimana hanno fatto il loro lavoro egregiamente, ma la partita è tutta un’altra cosa. Altro ritmo, altra intensità, altra resistenza avversaria. Gli avversari, già.  I Grifoni sono gli unici ad aver vinto contro la Leonorso all’andata, c’è tanta aria di rivalsa qui dentro. Fuori, invece, continua a piovere. Attorno al campo sono arrivati anche parecchi giornalisti, molti più di quelli che si vedono da queste parti e a questi livelli. Hanno sentito dell’ex giocatore del Leinster che torna alle gare dopo un serio infortunio. Vogliono capire, vogliono filmare. Non li ferma neppure la pioggia, non li placca neppure il campo fangoso. Nel frattempo continuo la mia vestizione. Pantaloncini e calzoncini. La maglia numero 10. Quanto mi è mancata la divisa da giocatore in questi anni. È dura doverle distribuire ai ragazzi e sapere di non poter indossarla, prenderla in prestito per ottanta minuti. Oggi è mia. Poi gli occhiali, poi il caschetto. Si fa riscaldamento tutti insieme, poi arriva l’arbitro e si fa l’appello. McKinley, Ian, numero dieci.

E poi si scende in campo.

Sapete, ero preoccupato per i primi minuti. Non sapevo come avrei reagito in campo, come sarebbe stato il toccare un ovale sotto pressione dopo tutto questo tempo. Come sarebbe stato andare a contatto con l’avversario, come sarebbe stato passare la palla a compagni con cui non avevo mai giocato e dopo tutto quel che mi era successo. L’adrenalina però, il sostegno di tutti e una sorta di “richiamo della foresta” ovale, un essere già stato in queste dimensioni, in questi panni, mi hanno aiutato parecchio. Segno due mete, una con una cavalcata di una cinquantina di metri. I calci entrano, l’occhio e gli occhiali non mi danno mai fastidio. Vinciamo 65 a 5, ma la cosa che mi attira di più non è il tabellone. È mia madre, felice e sorridente, sotto la pioggia. Si è fatta duemila e passa chilometri per vedermi giocare e non credo che in questo momento stia rimpiangendo le tribune di Dublino. Sono le mie gambe, soddisfatte per aver corso a ritmi che non ricordavano da un po’. Certo, la difesa è da testare ancora, ho dovuto fare un solo placcaggio in tutto l’incontro, ma oggi questo non conta. E non conta neppure il terzo tempo, che questa volta salto a piedi pari. Sono stanco, anche se le gambe avrebbero voglia di sgranchirsi ancora. L’adrenalina del debutto, però, ha fatto il suo corso e mi ha prosciugato le energie. Ho solamente voglia di stendermi a letto e di ricordare una delle giornate più belle della mia vita. La giornata in cui ho capito che il rugby mi ha dato una seconda possibilità. Distante da casa, apparentemente distante dagli affetti, distante ma non distantissimo da quelle notti insonni tra botte e lividi. Felice di poter riposare sapendo che il rugby nella mia vita, da adesso in poi, non sarà più una giornata di pioggia.