Di Valerio Amodeo

Prendo spunto dall’articolo di Gianluca Barca su ALL RUGBY di Aprile, per dire la mia riguardo all’attuale situazione delle società italiane. Il discorso di Barca è, sicuramente, di più ampio respiro e abbraccia tutti i vari livelli del rugby nazionale. Ovviamente mi raccordo a lui analizzando la vicenda sulla base delle mie conoscenze del rugby non professionistico laziale.

Prima di farlo, provo a riassumere il pensiero espresso da Barca nel suo pezzo. Secondo lui, di fatto, c’è una netta spaccatura tra la nazionale e i club che non riescono a stare al passo con la “locomotiva dell’intero movimento (…) che nel tempo ha incrementato in modo esponenziale la propria potenza”.

Afferma poi: “La locomotiva tira, ma i vagoni perdono pezzi” portando l’esempio di grandi società come Roma e Parma tragicamente scomparse dal panorama nazionale.

Questo che è scritto è reale e sacrosanto, ma vale la pena soffermarsi sul perché di questo incredibile e apparentemente incolmabile divario tra le due anime dello stesso corpo.

Di fatto dal 2000, ossia da quando l’Italia è entrata nel torneo del  Sei Nazioni, c’è stato un enorme incremento di  tesserati e la nascita di nuove società a cui non è però seguito un forte interesse verso la base da parte della Federazione, che ha preferito cavalcare l’onda dell’entusiasmo dato dalla nazionale investendo solo sulla nazionale stessa o nel tentativo di creare un movimento legato al professionismo (non badando però ai costi reali dell’iniziativa).

L’idea della Fir era, forse, che il movimento rugbystico nella usa totalità avrebbe giovato della grande e nuova notorietà degli azzurri, ma dopo dodici anni bisogna rendersi conto che così non è stato per nessuno, forse neanche per le franchigie celtiche. Infatti, gli investimenti sono stati sicuramente pochi e molte delle società (anche quelle che sfornano i ragazzi per le accademie) arrancano e lottano per sopravvivere.

Nel Lazio questa situazione è evidente. Dal 2000 a oggi abbiamo assistito alla morte della Rugby Roma Olimpic, all’abbandono dell’eccellenza da parte della Capitolina, fucina di talenti. Per non parlare di quello che succede sotto, nelle categorie inferiori. Sono anni, infatti, che si assiste alla nascita e alla repentina scomparsa di nuove società, cosa che non permette neanche il regolare svolgimento dei campionati con continui abbandoni e ritiri in corsa (3 nella serie C e uno nella B solo quest’anno).  Anche nel minirugby la situazione non sembra essere così rosea e questo credo sia l’aspetto più grave di tutta la questione. Infatti, solo un buon lavoro da parte di queste società nel settore propaganda può portare alla scoperta di giovani talenti, da far in seguito crescere nelle accademie. Come può questo essere possibile senza alcun investimento per le società dall’interno e dall’esterno. Non che i soldi costituiscano una buona società o creino ottimi tecnici, ma senza investimenti una piccola realtà di periferia o di provincia non può che scegliere un allenatore/genitore a buon mercato, piuttosto che un professionista aggiornato e specializzato.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedersi in che modo la federazione avrebbe dovuto contribuire allo sviluppo di queste società. Di certo non ho la ricetta giusta o la bacchetta magica per risolvere il dilemma però posso provare a dare qualche suggerimento. La mia idea è che se vogliamo che arrivino investimenti dall’esterno bisogna cominciare a lavorare dall’interno per rendere il prodotto ancora più appetibile.

Non a caso lo spirito del rugby e i suoi valori hanno permesso l’avvicinamento di tante nuove persone e spinto le famiglie a portare i loro piccoli nel mondo ovale, privo dell’esasperazione tipica del calcio. Da questo punto di vista la federazione e la nazionale hanno fatto molto. Questo non porta investimenti né interesse da parte del mercato. In che modo allora questo può avvenire?

A d esempio, facendo vedere che il rugby in Italia non è solo Treviso e gli Aironi, ma anche grandi piccole realtà come il Frascati rugby (che vanta un altissimo numero di tesserati) e una prima squadra in serie B. Quindi un investimento potrebbe essere quello di parlare maggiormente  di rugby attraverso i media (giornali e Tg) , dando i risultati delle squadre dei campionati per lo meno fino alla serie B, considerando che sopportiamo i risultati e i servizi perfino sulla terza categoria calcistica ultima di innumerevoli  serie della palla tonda. Magari scoprire che la Lazio è in eccellenza, che due squadre romane sono prime in A1 e in A2 e che Frascati, CUS Roma, Rieti e Primavera non se la cavano per niente male in serie B potrebbe essere d’aiuto. E soprattutto far vedere che si è veramente interessati alla crescita di questo sport, non solo cercando enormi stadi per la nazionale, ma creando piccole strutture per chi la nazionale la crea dal basso. E’ impensabile, infatti, che dopo dodici anni di Sei Nazioni a Roma, la Federazione non abbia costruito neanche una nuova struttura nella capitale o non abbia creato un qualche contributo per quelle realtà che ne hanno bisogno per sganciarsi dai campi di calcio o da strutture fatiscenti. Quale imprenditore secondo voi può essere interessato a investire in una società che non possiede una struttura e allena i suoi ragazzi in un campo da calciotto?  Quale società può cercare di crescere se è costretta a pagare prezzi importanti per l’affitto delle strutture?

Un’altra cosa da tenere presente è l’attuale struttura dei campionati di categoria.  Ad oggi le stagioni regolari dei campionati terminano tutti ad Aprile con l’apertura della stagione dei playoff per le vincenti.

E le altre squadre? Come si può pensare di creare giovani atleti volenterosi se l’attività agonistica termina ben 5 mesi prima l’inizio della successiva. Sarebbe quindi opportuno creare delle possibilità di gioco (al di là di tornei e amichevoli) per garantire continuità di lavoro alle squadre costrette sennò a dei riempitivi per non far perdere interesse e partecipazione ai  ragazzi.

Porto poi un’ultima idea che può sembrare banale: i guardalinee.

In serie B e in serie C, così come nelle giovanili, i giudici di linea, quando ci sono, sono impersonati da tesserati delle società che partecipano alla gara (solo nelle finali sono presenti quelli della federazione). Non è credibile che la presenza di guardalinee ufficiali possa portare a una migliore gestione della partita da parte dell’arbitro con un conseguente aumento del livello di gioco e quindi dei giocatori e delle società?

In conclusione credo che Federazione abbia fatto molto in questi anni per il rugby italiano, ma credo che abbia incentrato le sue forze in maniera eccessiva verso la nazionale e il professionismo, dimenticando che i grandi giocatori (penso ad esempio a Riccioli o Ceccarelli, giocatori della nazionale under 20) sono stati piccoli campioni di squadre di periferia ed è proprio da qui che bisogna partire per fare di piccoli uomini grandi rugbysti.