Oggi è il momento di festeggiare le vittorie di fine campionato. Dico oggi per il semplice motivo che con le finali di ritorno dei play off di serie C il rugby italiano ha, di fatto, finito la stagione ufficiale. Ok, ci sono i beach rugby (ne sono pienamente consapevole). In ogni caso, per me, è un piacere vedere le foto di festeggiamenti. Sono sensazioni che, da allenatore per passione, vorrei provare anche io prima o poi. Detto questo, tuttavia, in questo articolo vorrei stare dalla parte dei perdenti. Perchè forse in pochi hanno provato a stare, realmente, da quella parte. In un rugby dove tutti facciamo tutto per passione, proviamo ad immaginare il fischio finale di una finalissima (perchè come ho già detto: “non. serve stare davanti a 80.000 persone per giocare una finalissima. Basta un gruppo di amici, una passione e un obiettivo da raggiungere) per chi non è riuscito a conquistare il risultato che nel caldo di agosto si era prefissato. In un attimo tutto finisce. Questa sensazione dura un secondo, uno solo. Ma basta perchè il proprio mondo ovale crolli. Come detto si tratta di un secondo, poi fortunatamente nel rugby hanno inventato I Capitani (la maiuscola è una scelta voluta) perchè loro (tutti e non so il perchè) sono abili a mettere da parte le proprie sensazioni di dolore (perchè di qeusto si tratta) e in quel momento (come in molti altri) girano per il campo a consolare tutti, nessuno escluso; dall’ala non giocante, al massaggiatore, fino al tifoso più piccolo in lacrime per la sconfitta. Già, perchè nell’amatorialità del nostro sport si soffre tutti, ma proprio tutti. Le finali sono viste come un obiettivo di tutta la città che si rappresenta indossando la maglia da gioco, tutti si sentono rappresentanti. Ok, a volte è più un quartiere, ma tant’è. E se da una parte, meritatamente e giustamente si festeggia, dall’altra parte del campo si fanno i conti con tante cose. Prima tra tutti la ripartenza: sperare di fare il salto di categoria vuol dire sperare di saltare in un rugby nuovo, più difficile, ma fuori dalla propria comfort zone; così immaginare di ripartire da dove, per 160 minuti (o 80 minuti), si era sperato di poter scappare è davvero dura. Poi, certo, ci sono i compagni di squadra, gli amici, le fidanzate, i genitori, pronti a consolarti, ma sono quei 10/15 minuti di solitudine che forgiano rugbisti ancora più consapevoli. Dal fischio finale, infatti, una squadra ride e piange di felicità, mentre all’altra crolla il proprio mondo ovale addosso. E non ci sono discorsi che tengano. L’unica cosa che conta, in effetti, è prendere coscienza che tutti stanno vivendo quel piccolo dramma.  E solo nel momento in cui un rugbista sconfitto alza la testa e vede i propri compagni vivere la stessa cosa, lo stesso dramma, ecco è quello il momento in cui inizia la consapevolezza di aver comunque “vinto” degli amici per la vita. Perchè certe sensazioni condivise, nello sport come nella vita, cementano amicizie più di qualsiasi altra cosa. E da quella consapevolezza, in molti casi, inizia la volontà di prendersi una rivincita sul campo e, di fatto, inizia la nuova stagione di rugby. Onore, dunque, ai vincitori. Ma oggi un plauso va agli sconfitti. Perchè quei 15 minuti di sconforto, siano le fondamenta dei futuri successi sportivi, tra amicizie per la vita, sorrisi e, chiaramente, campi da rugby. @davidemacor