Perché uno che giocava a rugby a livello professionistico, che si ritrova in fin di vita dopo un attentato e che, dopo alcuni mesi dopo ritorna a mettere le scarpe bullonate, anche se poi non riuscirà a disputare una partita, decide di scrivere un libro sulla sua storia?

Se questo cambiamento di vita, questa svolta nella mia esistenza è dovuto alla mia presenza nel posto sbagliato al momento sbagliato, penso di aver incontrato la persona giusta al momento giusto, la mia editrice francese. Avevo molte richieste per documentari, libri, articoli ma io non rispondevo nemmeno al telefono in quel periodo, perché pensavo fosse meglio stare zitti, mantenere il silenzio. Allo stesso tempo però avevo la sensazione di vivere qualcosa di così folle, triste e forte, che diventava frustrante tenerlo dentro di me, non riuscire a non tirarlo fuori, a esternarlo. Ho avuto poi l’opportunità di pubblicare questo libro con una prestigiosa casa editrice, e l’ho fatto perché sapevo di poter raggiungere un vasto pubblico. Ho però preteso di essere io stesso a scrivere l’intero testo. Mireille Paolini ha creduto in me, alla mia capacità di farlo. Scrivevo regolarmente i miei pensieri su dei quaderni che però non facevo leggere a nessuno: per scrivere il libro, per raccontare ciò che vivevo, mi ci è voluto quasi un anno. Prima lo avevo anche fatto con le immagini. Con me ho sempre avuto una videocamera e filmavo tutto quello che vedevo, cercando di catturare il bello per affrontare ciò che era difficile. Scrivere questo libro, accompagnato da una delle migliori editrici francesi, mi ha dato fiducia nella possibilità di un’altra vita, mi ha permesso di capire che potevo vivere diversamente, realizzarmi in un altro modo, e alla fine mi ha fatto accettare l’idea di dover smettere con il rugby, cosa inevitabile data la gravità delle mie ferite.

Quando ti è venuto in mente di farlo?

Dopo il primo incontro con Mireille Paolini. In un momento di grande difficoltà, di grande sconforto, mentre delle crepe un po’ alla volta si stavano aprendo nel mio stato d’animo. Fin da subito chiarito con la casa editrice che non lo avrei scritto come una testimonianza classica. L’idea di destrutturare il racconto è stata accettata e questo mi ha permesso di fare emergere il mio stile, rafforzando la narrazione.

Sul titolo “Mais ne sombre pas” e sulla la sua traduzione per la versione italiana “Ma non affondo” abbiamo discusso tanto. Come mai ha scelto questo titolo?

Nello stemma della città di Parigi c’è un battello in mezzo alle onde e la frase “Battu par les flots mais ne sombre pas”, cioè “Battuto dalle onde ma non affonda”. Quando, dopo gli attentati, sono uscito dall’ospedale e mi sono riconnesso con il mondo, vedevo che questo simbolo era diventato importante nella volontà del popolo francese e parigino in particolare di non cedere all’odio, di non affondare di fronte alla violenza imposta, rompendo al contempo il processo che aveva portato a questo evento nel quale giovani francesi stavano per uccidere a sangue freddo altri giovani per degli ideali stupidi. Mi ci è voluto molto tempo per trovare il titolo, che è venuto fuori dopo una lunga chiacchierata con la mia editrice. In questo titolo, anche se molti lo vedono come una dichiarazione in prima persona parlando della mia esperienza, in realtà c’è un desiderio, una dichiarazione per il mondo intero, nonostante la nostra civiltà caotica e i nostri Paesi, con la loro storia fatta di sangue, di dominio e di asservimento. Sono sicuro che riusciremo a non andremo a fondo. Questo libro è stato scritto per essere un libro di pace, è stata la mia pietra per la costruzione del mondo in cui desidero vivere.

Nel tuo libro c’è la Francia, Parigi soprattutto, l’Italia, Venezia nella fattispecie, il rugby e la musica. Come convivono in te tutte queste cose?

Sono tutte cose che mi compongono, io ne sono la somma, l’addizione. Mi creano ogni giorno e sono quindi parte integrante di questa narrazione. Dopo gli attentati ero fisicamente distrutto e nel profondo del mio cuore, la musica, l’Italia, il rugby, la mia periferia erano l’edificio su cui ho ricostruito la mia vita, durante i mesi di scrittura che rappresentano il momento più importante della mia nuova vita. Per questo escono in modo così forte nel libro. Mi dicevo che, se non sai dove vai, guarda allora da dove vieni. E io vengo da tutto questo, dalla forza dei miei amici, dall’amore della mia famiglia, dal mio essere un rugbista e dai valori del rugby. Vengo dalla musica, che per me è essenziale. La musica in particolare è tanto importante in quanto non provengo da un ambiente artistico. Ho molto poca cultura letteraria. Il mio amore per le parole viene dalla musica, dal rap e dalla canzone. E dalle favole che mi raccontava mia madre quando ero piccolo, iperattivo e non riuscivo a dormire la notte. In Francia i critici letterari hanno descritto il mio stile come un ritmo, scandito e orale. Ciò proviene da quanto detto prima.

Nel libro racconti in modo cronologico la tua storia dal momento in cui inizi la riabilitazione, dal momento della tua rinascita potremmo dire, ma tra un capitolo e l’altro ci sono dei flash back. Come mai questa scelta?

Volevo che la narrazione assomigliasse alla mia vita al momento della scrittura, per farvi immergere ancor di più il lettore. In quel momento della mia vita tutto era caos, reminiscenze, sogni e ricordi. Tutto questo, in modo inconscio, si mescolava per ricreare ciò che era stato rotto. Inoltre, i miei sogni e i miei incubi erano diventati così forti che volevo dare loro una parte importante. Questo è ancora vero oggi.

Alcune curiosità: qua e là, nella versione francese, utilizzi delle parole in italiano, e un capitolo lo hai intitolato réANIMAtion, riANIMAzione, con le minuscole e le maiuscole. Come mai?

Al momento degli attentati mi sentivo completamente italiano così come francese. La mia vita era in Italia, pensavo in italiano e il mio futuro si delineava in Italia. Ero felice e soddisfatto, sia come sportivo che come giovane. Questa doppia influenza è emersa in alcuni momenti nella narrazione senza che io ci pensassi. Per quanto riguarda la “réANIMAtion”, in quel momento sono rimasto per lunghe ore in equilibrio tra la vita e la morte e ho avuto l’opportunità di viaggiare molto profondamente fin dentro la mia anima. E “Anima” è una parola magnifica, per la sua costruzione e il suo significato.

Tra le altre cose c’è una critica al mondo del rugby, soprattutto francese. Parli del professionismo, dei soldi che girano in quel mondo, soprattutto in Francia.

La mia esperienza al livello più alto del rugby è stata molto difficile dal punto di vista umano. Ho giocato a 18 anni con alcuni degli idoli della mia gioventù, i cui poster erano ancora appesi alle pareti della mia stanza da adolescente. Ma sono rimasto profondamente deluso. La mancanza di gentilezza, i comportamenti e le deviazioni professionali di questo sport mi hanno profondamente segnato. Arrivando in Italia volevo soprattutto diventare per gli altri il giocatore e l’uomo che avrei voluto trovare lungo il mio cammino. Ho scritto queste cose nel mio libro, ma spesso adesso penso che forse non avrei dovuto.

Quando eri a terra, davanti al “Petit Cambodge”, ti avevano dato per morto. Poi invece sei “resuscitato” e addirittura hai anche provato a ritornare in campo. Come ci si sente in questa “andata e ritorno”?

È qualcosa che ho ancora difficoltà a elaborare, a capire. Sapere quali e che segni ha lasciato in me. Certamente sono importanti, anche se ho ancora difficoltà a comprenderli. Ultimamente, rileggendo il libro, ho trovato che i capitoli in cui parlo di questo sono molto precisi. Oggi sarei incapace di parlarne con tanta precisione e allo stesso tempo con tanto pudore. Pensavo, e penso ancora, di avere difficoltà a capirlo, quindi è difficile spiegarlo ad altre persone. La forma migliore è allora la metafora, l’immagine e la poesia.

Nel documentario girato da Laetitia Krupa per il quotidiano “L’Equipe”, Serge Simon, il medico che ti ha salvato la vita, dice di essere stato fortunato perché poteva salvare uno stronzo e invece ha salvato un bravo ragazzo. Quanto è stato importante Simon?

Non sono certo che sarei sopravvissuto se lui non fosse apparso come un angelo custode. Nonostante l’energia e la volontà di mia sorella e dei miei amici nel tenermi in vita, mi ha dato uno slancio di forza vitale grazie alla fiducia che mi ha trasmesso. E l’assurdità della situazione mi ha dato una forza supplementare, mi sono detto «tutto questo è talmente impossibile che posso fare l’impossibile e rimanere in vita». Ho compreso subito la follia che c’era intorno a noi e la gravità della mia situazione. Ero concentrato e freddo, come per un calcio importante negli ultimi minuti di una finale. Sapevo che non avrei avuto una seconda possibilità. E in questo genere di partite, i segnali positivi che i giocatori si inviano fanno vincere o perdere. Serge Simon è stato il compagno che trasmetteva la forza di vincere. Oggi è molto importante per me, è come una presenza costante, è come un angelo custode. E so di essere molto importante anche per lui.

Anche tu hai detto di essere stato fortunato. Perché?

Sono vivo, mia sorella è viva. In quel preciso momento, soltanto i proiettili decidevano. Qualche millimetro di differenza e sarei morto sul colpo come molte persone intorno a me. A volte l’unica cosa che conta è la fortuna.

Con tua sorella Alice hai un legame molto profondo. Quanto e in cosa è cambiato, se è cambiato, dopo quel 13 novembre?

C’è un legame quasi telepatico tra di noi, ma c’è anche un legame di fiducia. Questo era già forte prima degli attentati, dopo, ovviamente, è cresciuto notevolmente.

Come ti sei sentito quando hai capito di non poter più tornare a giocare? Come ti senti adesso?

Nel momento in cui ho deciso di smettere c’è stata come una liberazione per l’idea di fermare quell’inimmaginabile sofferenza quotidiana che era diventata la mia vita. C’era anche un nuovo orizzonte che si delineava grazie al libro. Mi sono concentrato su quello. Mesi dopo però ho sentito come un enorme vuoto dentro di me, un vuoto di grande violenza con in più una sensazione di ingiustizia. I rimpianti sono riemersi, con tutto quel gusto di amaro che c’era dietro. Mi ci è voluto un po’ per liberarmene. Per questo gli anni 2018 e 2019 sono stati davvero difficili. E mi sono allontanato dal rugby. Oggi va molto meglio perché mi sento pienamente lanciato nella mia nuova vita, la amo e mi offre prospettive interessanti. Nonostante tutto credo che la ferita di questa fermata forzata, violenta, senza avere auto la possibilità di dire addio, di concludere ciò che avevo iniziato, resti una ferita che probabilmente non si rimarginerà mai. Ma lo accetto. Rafforzerà quello che faccio oggi, influenzerà ogni parola, ogni video, ogni foto.

Le ferite sul tuo corpo sono ancora ben visibili. Cosa invece è rimasto dentro di te, nella tua testa, di quel 13 novembre?

Non penso quasi mai agli attentati. Nonostante tutta la mia vita sia cambiata in quel momento, nonostante quello sia stato il punto di partenza della mia nuova vita e che adesso ogni mia giornata ne dipenda. A volte, quando qualcosa mi ci fa ripensare, mi stupisco della follia di quella sceneggiatura, della mia storia. Ho scelto fin dal primo giorno del mio risveglio di combattere ogni cosa che potesse influenzare la mia vita futura, le paure, le frustrazioni, i comportamenti legati a quell’evento. Sono stato intraprendente e coraggioso in questa battaglia e credo di aver realizzato la maggior parte del lavoro, chiaramente grazie anche agli psicologi. Sono felice di ciò che ho fatto, è come un regalo per il mio presente e il mio futuro. È ormai tutto ciò che conta per me. 

Ma non affondo sarà presentato in prima nazionale a Ragusa, alla presenza dell’autore, sabato 11 settembre, alle ore 19:00, presso il teatro Ideal. 

Domenica 12 sarà presentato a Palermo, lunedì 13 a Siracusa e Catania, martedì 13 a Enna e Caltanissetta.