“L’Italia ha solo una dozzina di giocatori di livello internazionale”.

Brad Johnstone, in conferenza stampa a Twickenham, ha poche parole e ancor meno diplomazia. La Federazione è andata a prenderlo ad Apia, capitale delle Isole Fiji, qualche giorno dopo la fine della sciagurata Coppa del Mondo del 1999. Sciagurata per noi, non per lui. Le sue Fiji sono state la rivelazione del torneo, capaci di mettere al muro la Francia, prima dell’intervento salvifico (per i galletti) di Paddy O’Brien, arbitro che ridisegnerà quel giorno il concetto di “giornataccia”. Johnstone è, secondo la Federazione, il profilo giusto per ripartire: un tipo tosto, in grado di far tornare quella scintilla negli occhi degli azzurri sparita improvvisamente nell’anno appena passato. Alterna allenamenti duri ad allenamenti massacranti, al motto di “in partita sarà tutto più semplice”. I risultati sembrano arrivare subito: alla vigilia del Sei Nazioni battiamo abbastanza comodamente la Georgia – unico match di collaudo di quella Nazionale prima del Debutto con la D maiuscola – poi trionfiamo con la Scozia il 5 febbraio.

Poi, però, più nulla. Prendiamo carrettate di punti da Scozia, Irlanda e Inghilterra, solo con la Francia abbiamo una bella reazione d’orgoglio. Ma non c’è tempo di fermarsi, a giugno c’è un tour di quelli tosti nel Pacifico. Uno dei primi a dire “No, grazie” è Alessandro Troncon, che nel frattempo è diventato capitano di quel Montferrand che proprio in quei giorni si dovrebbe giocare le sue chance di titolo transalpino. Johnstone non fa una piega: “Va bene, ma allora rinunci per sempre alla Nazionale”.

Tertium non datur.

Troncon si ritirerà tra le polemiche, salvo poi essere reintegrato qualche mese più tardi dopo una cocente sconfitta della Nazionale contro il Canada.

Ecco, il 2001 non va tanto meglio: il 6 Nazioni ci vede entrare nella sua breve storia dalla parte sbagliata, dopo l’80 a 23 di Twickenham. È un risultato che falsa molte statistiche, per il resto miglioriamo i passivi contro le altre e andiamo vicini a vincere in Scozia, ma la strada per competere a quei livelli è ancora lunga.

E allora che si fa? Si va in tour a fine stagione. Un mese e otto incontri tra Namibia, Sudafrica, Uruguay e Argentina, nel pieno dell’inverno australe. Se vi viene un termine tra il “massacrante” e il “disumano” scrivetemelo pure. Si contano almeno venticinque rinunce, con Johnstone che reclama visite mediche e squalifiche per tutti i furbetti, supportato da Giancarlo Dondi, presidente della Federazione e fermo sostenitore del ct neozelandese, nonostante in quei giorni più di qualcuno negli uffici della Federazione si stia guardando intorno in cerca di un’alternativa. Non senza qualche momento memorabile, visto che arriverà una richiesta via fax pure a John Hart, ex ct All Blacks, in quel momento in vacanza con il suo migliore amico Brad Johnstone. No, nessuna omonimia.

La Nazionale Italiana che parte per il tour è giocoforza raffazzonata. Perché è vero, gli azzurri di livello internazionale sono pochi. Molti di questi sono avanti con gli anni, altri si stanno ritirando. I fratelli Cuttitta, per esempio. Marcello ha rinunciato alla Nazionale alla vigilia del Sei Nazioni, Massimo era in campo al Flaminio nel giorno del trionfo con la Scozia, ma nell’estate del 2000 hanno entrambi di fatto dato un taglio col rugby internazionale accettando un ingaggio dall’Identicar Bologna, ambiziosa squadra di serie A2 (l’attuale serie A). I bolognesi saranno promossi nella massima serie, ma a maggio del 2001 viene organizzato il match di addio al professionismo dei due. Si gioca ad Alghero. Da una parte una selezione di giocatori italiani guidata da Marco Bollesan, dall’altro una selezione internazionale guidata da Johnstone. In campo gente come Campese, Stead, Tamati. Il match dovrebbe fare da contorno alla sfida tra le Zebre di Bollesan e i Barbarians, ma alcune condizioni imposte dalla Federazione – non ultima, l’obbligo di schierare solo atleti italiani – mandano all’aria tutto e ci fanno fare una figuraccia internazionale. Johnstone dovrebbe essere lì solamente per mettere in campo la miglior formazione possibile e per bersi due bicchieri nel terzo tempo, ma in campo vede qualcosa. Si rende conto che uno dei suoi, l’estremo di riserva, non è poi così male. È un sudafricano di chiare origini italiane, che ha giocato a Stellenbosch e che è arrivato in Sardegna nell’autunno precedente. Gioca un tempo, per il neozelandese è più che sufficiente: Giovanni Antoni, numero 15 dell’Alghero, serie B italiana, sarà il suo estremo nel tour estivo.

Oh, in fin dei conti gli era andata bene con Marco Rivaro, vuoi che la storia non si possa ripetere con lui?

No, non si ripeterà. Guadagnerà due caps da titolare contro Namibia e Springboks. È dotato di una buona velocità di base, ma a livello tattico e tecnico è un corpo estraneo anche in assenza di quasi trenta azzurri. Un infortunio lo metterà fuori causa per gli incontri in Sudamerica, poi sparirà dai radar della Nazionale. Giocherà ancora ad Alghero, poi a Roma, nelle categorie minori italiane.

Il tour azzurro, nel frattempo, non va come sperato. Si puntava a vincere sei partite su otto, ovvero tutte tranne i due test contro Springboks e Pumas. In Namibia partiamo bene, battiamo una selezione di livello mediocre e i Welwitschias, poi cominciano i dolori. Contro ogni (approssimativa) previsione i Barbarians sudafricani ci massacrano senza possibilità di replica, mentre con gli Springboks (che quel giorno fanno debuttare un certo Victor Matfield) teniamo duro per quaranta minuti pur con qualche recriminazione, salvo poi prendere quattro mete a cavallo dei due tempi. In Uruguay rischiamo grosso contro una selezione minore per poi vincere contro i Teros nell’acquitrino di Montevideo. Gli infortuni si susseguono, a questo punto del tour siamo di fatto messi insieme col nastro adesivo: prendiamo 62 punti dalla seconda squadra argentina, altri 40 dai Pumas.

In Federazione si torna ad alimentare il fuoco sotto la graticola di Johnstone. Si parla di pista francese, con Lanta, ex allenatore della Benetton, pronto a salire sull’aereo e sbarcare a Roma. Un infuocato Consiglio Federale rinnoverà la fiducia all’ex All Black, ma gli verrà affiancato in qualità di general manager John Kirwan.

È l’inizio dei titoli di coda, verrà esonerato dopo un altro Sei Nazioni senza vittorie. Era considerato l’uomo giusto al momento giusto, uno dei pochi in grado di rimetterci in carreggiata, soprattutto dal punto di vista mentale. Ci ha regalato il debutto più bello che potessimo permetterci e un susseguirsi di dichiarazioni, tour massacranti e sconfitte che ci hanno fatto sprofondare nel peggior momento della nostra storia ovale.

Tra esclusioni illustri e carte disperatamente esilaranti, come quella firmata Giovanni Antoni, che resterà uno dei simboli di quell’Italia ovale che ha provato tutte le strade dell’improvvisazione, dimenticandosi di fermarsi per ricostruirsi.

Ricordateveli, quegli anni.

E ricordatevi di Antoni, ovunque sia finito.