photo.phpPrima di cominciare a raccontarvi i miei pensieri voglio ringraziare Claudio Casarotto, allenatore del Verona Rugby Ragazze per aver condiviso con me le sue riflessioni ed avermi aiutato a scrivere questo articolo. Senza il suo contributo, questa mia riflessione non avrebbe mai visto la luce.

Finalmente piove… Lo so, state pensando che sono impazzito. Di nuovo. Il fatto è che il treno è fermo, a causa di una frana per le piogge continue nella desolata stazioncina appenninica di Grizzana Morandi ed in questo mio frenetico e continuo rimbalzare come un ovale bizzarro, questi momenti di blocco sono quasi una benedizione, visto che mi danno il tempo ripescare i miei pensieri più complicati dai meandri del mio correre perenne. Ecco che, mentre ascolto il ticchettio della pioggia battente sul vetro, mi torna in mente quelle breve chiacchierata che domenica ho scambiato con Tracy Balmer, affranto capitano scozzese nel post partita Italia – Scozia. Grande gioia, per le azzurre in un giorno che ha visto aggiungersi una bellissima vittoria al nostro palmares del 6 Nazioni, ma io (ormai dovreste saperlo) sto sempre a cercare qualcosa su cui riflettere e domenica l’ho trovato nelle parole della Balmer: “Ho visto l’Italia crescere tantissimo, mai le azzurre avevano giocato così bene. Per noi è un momento difficile, siamo alla ricerca della qualità, ma i numeri ci penalizzano”. Qualità e numeri… Ecco cosa mi frulla nella testa da domenica. Perché il rugby è un gioco di numeri: rugby 7s o rugby a 15s, 6 Nazioni, Coppa Italia a 7, i ruoli che vanno per numero, ma il numero senza dubbio importante è quello delle ragazze che stanno sul campo. Lo sanno benissimo anche in Irlanda visto che hanno lanciato una campagna nazionale di reclutamento che titola “Strenght in numbers!” ovvero: la forza sta nei numeri. Una indiscutibile verità. La Scozia in questo momento soffre, perché come la Balmer mi diceva: “In Scozia il rugby non è la prima scelta delle ragazze”. Questo mi ha spinto a riflettere un po’, da noi i numeri sono cresciuti molto negli ultimi due anni, ma il rugby è davvero diventato la prima scelta delle ragazze in Italia? No. Questo in molti casi lo si può vedere dalle qualità atletiche delle ragazze che arrivano sul campo; movimenti ereditati da altre discipline, o la quasi totale assenza di atletismo, perché in Italia il settore giovanile è ancora molto debole e sono rarissimi i casi in cui una bambina nei primi approcci col mondo dello sport decide di scegliere il rugby. L’altra cosa che mi rimbalza in testa è una considerazione nata dallo scambio di vedute con un bravissimo allenatore, Claudio Casarotto, che qualche mese fa mi diceva: “Per far definitivamente decollare il rugby in rosa, il focus deve essere spostato su quello di cui tutti tacciono: l’abbandono”. Già perché paragonato al rugby maschile, il numero di ragazze che lasciano il nostro bellissimo gioco è altissimo, in percentuale più del triplo. Una cifra da capogiro. Il movimento femminile soffre di un tasso di abbandono altissimo, enorme se paragonato a quello maschile. Nessuno lo dice, ma tutti quelli che lavorano nel settore lo sanno e si ritrovano tutti gli anni non solo a dover fare i salti mortali per mettere in campo una squadra, ma anche a dover affrontare l’impossibilità di lavorare sulla qualità. Dove non c’è numero è quasi impossibile fare qualità. Ogni bravo allenatore lo sa, spesso ci si deve accontentare di quello che c’è. Ora, proviamo a chiederci perché le donne rinunciano a scendere in campo più facilmente degli uomini. Le ragioni di questa disparità sono semplici: stiamo paragonando due cose diverse. Non perché uomini e donne sono diversi, ma perché il contesto generale di approccio al rugby è diverso. Per semplificare il ragionamento partiamo dagli uomini, realtà più consolidata e (credo) più facilmente comprensibile. Se penso a tutti i giocatori senior che ho conosciuto quando ero sul campo, realizzo che quelli di loro che hanno smesso l’hanno fatto solo perché il medico o l’anagrafe glielo hanno imposto. L’abbandono nelle giovanili anche tra i ragazzi è altissimo ma nei seniores è quasi nullo. E’ normale, c’è una scrematura alla base e restano sul campo solo i giocatori realmente motivati: il rugby non è uno sport per tutti, questo è un pessimo luogo comune. Il rugby è uno sport per tutti i fisici, ma non per tutte le personalità. Ci vuole una testa particolare per essere un rugbista. Secondo uno studio effettuato dall’IRB (e sono sicuro che le vostre esperienze personali lo confermano) il 3° anno di gioco è quello critico: se supero quello scoglio, sarò giocatore a vita, se non lo supero, sono destinato a scivolare fuori dal rugby. Identificare questo scalino e prendere coscienza della sua esistenza è vitale per la pianificazione di ogni progetto di sviluppo: marca il punto da cui inizio a contabilizzare il ritorno dell’investimento. Fino a li ho solo investito sperando di creare un giocatore o una giocatrice, da li in poi ho un o una rugbista che non solo giocherà, ma farà crescere il movimento. L’abbandono giovanile è fisiologico: i ragazzi sperimentano giochi diversi, si mettono alla prova in ambiti diversi della vita e poi decidono quali sono le loro priorità e le loro passioni. Alcuni finiranno a fare i musicisti, altri i calciatori, qualcuno a giocare alla playstation, altri si concentreranno nella carriera lavorativa, in pochi si dedicheranno al rugby. Nessun allenatore si aspetta che il rugby sia per loro una scelta di vita a 16 né tanto meno a 12 anni. Il rugby è solo un gioco. E le donne dove sono in tutto questo discorso? Appunto, non ci sono. Bambine e ragazze in Italia non giocano a rugby, non ci sono (o sono molto pochi) i settori giovanili. Iniziano a giocare con le squadre seniores, perché il mercato offre solo quello, e spesso non prima di aver compiuto 16 anni. Il problema è tutto qui: visto che sono squadre seniores, ci aspettiamo di avere un tasso di abbandono quasi nullo. Nei fatti però sono tutte giocatrici alle prime esperienze, e il tasso di abbandono da prendere a riferimento è quello delle giovanili, quello alto e brutto che nessuno vuole guardare in faccia. Tutte le inferenze successive vanno fatte partendo da questo presupposto. Come fare allora a fare crescere il movimento Seniores, visto che è di quello che tutti stanno parlando? La risposta è semplice: creando un movimento juniores femminile. Alcune Società lungimiranti si sono già attrezzate, molte altre lo stanno facendo. Anche i Comitati e la Federazione stanno spingendo per incrementare i numeri nel settore giovanile. Queste sono le basi per la crescita del movimento femminile, di questo però nessuno parla. Il circolo virtuoso delle giovanili è partito e i risultati arriveranno. Ma solo tra qualche anno. Nel frattempo ci saranno ancora squadre che si sfaldano, come neve al sole, ragazze che abbandoneranno l’ovale per chissà quali altre cose. Il tempo è merce rara. In Scozia sembra che non siano molto contenti di aspettare, noi siamo in grado di farlo?

LORENZO CIRRI