E poi per sconfiggere il caldo ti trovi a camminare e camminare in mezzo a quella che una volta era la tua città, cerchi angoli silenziosi ricchi di ricordi e scorci che ti sono da sempre rimasti impressi. Questo è quello che mi succede quando, nel corso delle ferie estive, mi capita di tornare nelle città in cui ho avuto il piacere e il dispiacere di giocare. Capita che tra nipotini, figli e figlie acquisite il tempo da dedicare a me stesso sia sempre maggiormente ridotto al minimo. In quei brevi momenti, tuttavia, riesco sempre a ritrovare pezzi della mia gioventù e a condividerli con il migliore dei miei interlocutori, il fidato cane, a cui un giorno, penso, darò anche un nome. Così l’altro ieri, finito il pranzo, tutti si sono alzati per andare a trovare degli amici e, come per magia, sono scomparsi con i loro impegni e le loro quotidianità. Io, quasi incredulo, ho fatto un cenno al cane che si è stiracchiato, una volta sceso dalla poltrona e stancamente ha iniziato a seguirmi. Ero deciso a cercare di trovare un po’ di fresco e tranquillità in quella che una volta era stata la città della squadra con cui avevo avuto le più grandi soddisfazioni sportive. Come di consueto, tuttavia, la mia intenzione era quella di evitare il mondo del rugby di una volta, dal quale ero uscito senza troppi clamori, così per scelta. In ogni caso dove una volta c’erano i miei punti di riferimento ora non c’era più nulla, il Bar Sport era diventato un negozio di orologi, il Cinema Ariston una cartoleria, il pub sgangherato dove avevo conosciuto mia moglie era, addirittura, stato demolito per lasciar spazio ad un parcheggio. Poco riconoscevo e questo malessere interiore infastidiva anche il cane che da stanco e pigro, stava diventando sempre più irrequieto e svampito. Così provai a guardare la città con gli occhi di una volta, a ricordarla com’era e il mio cammino iniziò. Sentii ancora gli odori del panificio, ora un caseggiato senza arte ne parte, mi soffermai davanti ad una vetrina di una gioielleria dove una volta vendevano magliette da rugby e simili, arrivai anche sotto la casa del capitano, mitico punto di ritrovo di tutta la squadra, perché sua madre era una bravissima cuoca e aveva una cucina che dava su un giardino che, fatalità, era in grado di contenere tutta e 35 i giocatori del team di suo figlio. Santa donna, non si tirò mai indietro. Ricordo pastasciuttate alle tre di notte, di ritorno da una vittoria e lei sempre sorridente dietro ai fornelli. Che momenti! Tra un ricordo e un pensiero, poi, quasi senza volerlo, mi sono ritrovato davanti ad uno spazio verde, ora adibito a parco giochi comunale, che una volta era il nostro stadio del rugby. Mi si è stretto il cuore a non vedere più le tribune di ferro battuto, le panchine arrugginite, i piccoli spogliatoi, ma soprattutto le altissime H che, per anni, ho sempre pensato andassero a fine nell’azzurro de cielo. Quanti placcaggi, quante mete e quante lacrime, di gioia e di tristezza. Un pezzo, anzi il pezzo della mia vita più importante di tutti. Così con gli occhi lucidi, pieni di lacrime, il silenzio che mi ero creato venne rotto da una voce amica e, come sempre, rincuorante. 

“Sempre il solito romantico. E’ da quei tempi che ti dico che sei un giocatore rude, ma che mette sempre davanti il cuore. Burbero e solitario, ma un eterno romantico”. 

Quasi stupefatto, mi girai e cercando di nascondere le lacrime, mi lasciai scappare un “Capitano, sai sempre cosa dire. Più passano gli anni e più imparo sempre qualcosa dai tuo modo di porti. Come facevi a sapere che ero qui?”. 

“Ho intravisto tua moglie e ho capito dov’eri. Era da un po’ che ti aspettavo. Parlo spesso con tuo figlio, mi chiede di te, di come eri al tempo e di come si giocava a rugby in quel periodo. E’un bravo ragazzo, anche Caterina lo adorava”. 

“Capitano, al funerale di Caterina sono rimasto in disparte. Lo sa come sono fatto”. 

“C’eri, ti ho visto. E questo è quello che per me ha contato. C’eravate tutti, maledettamente invecchiati, ma tutti. Ho rivisto la squadra i miei compagni di ruolo, i flanker, fieri e silenziosi, cercavano di supportarmi e di starmi vicino, come avevano fatto per una vita in campo. Le ali smilze e sposate, in lacrime a fianco alle mogli. Sposate, capisci. Sposate! I piloni che piangevano incessantemente  e che, bonaccioni, non si davano davvero pace. I mediani seri e rassegnati. L’estremo in fondo alla chiesa, quasi a voler rimarcare una posizione assunta per una vita e poi c’eri tu, forse l’amico più grande che ho avuto; piccolo, piccolo, nella tua fisicità ancora importante. Con gli occhi gonfi di lacrime, che tuttavia (come sempre) non hai voluto lasciar cadere. Ricordo come hai preso la mano di tua moglie, per consolarla, lei distrutta per Caterina. In quel momento, con quel gesto semplice e disinteressato ho capito che tutto era a posto e che Caterina aveva fatto l’ennesima magia, vi aveva fatto incontrate e tutto era ancora come quella notte al pub. Così mi è venuto da ridere a ripensare alla tua faccia da innamorato perso e ai tuoi silenzi guardando quella che sarebbe diventata tua moglie”. 

“…”. 

“A e quando ti chiedono se ti manca il rugby, per favore, rispondi di sì. Lasciati andare e stasera ti aspetto, con tutta la famiglia, voglio ascoltare cos’hai combinato in questi ultimi anni di forzata assenza dal rugby. Se, come se mai ti fossi allontanato…”. 

LA FOTO ALLEGATA MI PIACEVA.