Ce l’avevano detto che sarebbe arrivato un rinforzo importante, ma mica potevamo immaginare una cosa del genere. Uno straniero, avevano lasciato intendere, senza sprecarsi a dare altre notizie. Sapevamo che con quasi ogni probabilità sarebbe stato un australiano. Ne sono passati tanti di qua, di australiani. Tim Lane, per esempio, una signora apertura, poi nello staff di John Kirwan quando ha allenato la Nazionale. Mark Potts, estremo e già capitano del Nudgee College, ruolo ricoperto poi da gente come Fainga’a e Dean Mumm, gente con parecchi caps in saccoccia. Venivano qui nel loro anno sabbatico, vivevano lontano dalle loro latitudini e poi tornavano a casa.

O giravano il mondo.

Che non era il girare il mondo del ventunesimo secolo, ve lo posso assicurare. Tanti australiani, qualche missionario irlandese, perfino un basco. I vecchi lo chiamavano “francese”, madonna come si incazzava. Non ci siamo fatti mancare nulla, qui a Rieti e dintorni. Per dire, quella domenica di novembre sapevamo che avremmo dovuto prepararci al campo per accogliere nel migliore dei modi  il nostro nuovo compagno di squadra.

Quando il presidente ce lo portò davanti qualcuno di noi fece una faccia strana. Quel viso non era del tutto di un altro pianeta, quelle gambe davano l’idea di aver visto fino a quel momento qualcosa di diverso dal nostro campo, qualcosa di differente dalla terra battuta mista ghiaccio mista fango che ogni maledetta settimana attentava alle nostre caviglie.

Lo avevamo già visto da qualche parte, pochi cazzi.

Sì, ma dove?

A dissipare ogni dubbio intervenne il presidente: “Ragazzi, lui è Greg, è australiano e starà con noi per un anno. Gioca estremo”.

Greg. Australiano. Estremo.

Due secondi netti, manco Wikipedia.

Greg Martin.

Estremo della nazionale australiana.

No, non è uno di quelli che dice di aver giocato qui e là, specie estintasi gradualmente grazie a motori di ricerca e a direttori sportivi sempre più scafati. E nemmeno uno che ha giocato una volta e poi basta, scartato. No no, quello lì ha giocato sabato scorso in Francia con la sua Nazionale. Cavolo, ci siamo trovati tutti insieme a guardare la partita, quante bestemmie ci ha fatto tirare quell’antenna parabolica. Non è che non lo avevamo riconosciuto, è che nessuno si aspettava di vederlo qui, quello era il punto.

Nessuno se ne capacitava.

Gli sguardi muti e sorpresi del sottoscritto e dei miei compagni non possono prendersi un solo aggettivo. Cioè, mettetevi nei nostri panni e provate a spiccicare parola davanti a quella sorpresa della società. Avessero potuto parlare avrebbero snocciolato una smodata quantità di domande in un tempo clamorosamente piccolo, del tipo: “Ma cosa ci fa a Rieti un mostro del genere?”, “Ma gliel’avete detto che giochiamo in serie C?”, e, dulcis in fundo, “Chi cazzo ci ferma quest’anno?”. Domande che sarebbero state inframmezzate da vari epiteti e slanci di euforia. Domande alle quali, col tempo, ho imparato a rispondere. Per prima cosa: uno così, in circostanze normali, non ci sarebbe capitato neppure per sbaglio.

Non a Rieti eh, in Italia.

Ad inizio stagione però Colleferro decise di prendere Jeff Miller, numero 8 di Queensland. Un mostro, ragazzi, un mostro. Vincerà la Coppa del Mondo con l’Australia nel 1991. Miller però, dopo un paio di settimane, mostrò lo stesso problema di Aristoteles ne “L’allenatore nel pallone”: sentiva la nostalgia di casa. Certo, Colleferro è bella e ha una tradizione ovale mica da ridere, Miller è un bel bestione che in campo sa farsi rispettare, ma la nostalgia non sta tanto a guardare curricula, spalle grosse o verdi rettangoli ovali. Oh, a Colleferro si fecero in quattro per farlo contento, ma nulla sembrava poterlo far stare meglio. Ad un certo punto qualcuno gli chiese se, a casa sua, abbia un amico da far venire. Certo che ci c’era, ed era pure un bel giocatore.

Australiano pure lui.

Bravi, Greg Martin, siete stati attenti.

Sì, ma mica potevi far stare in rosa due stranieri. Nelle serie minori, infatti, si poteva schierarne al massimo uno per squadra, e mica si poteva tanto sgarrare. E allora, per salvare capra e cavoli, da Colleferro si misero alla ricerca di una squadra nelle vicinanze che non avesse giocatori stranieri in rosa. Ed eccoci qua, col presidente a contattare Greg proprio nelle vicinanze della partita dei suoi Wallabies contro la Francia. Una settimana in Belgio e poi qui, a Rieti. A fare la spola tra Colleferro e Rieti, in verità. Che non sono proprio due chilometri eh, ma se chiedi a un australiano di farsi cento chilometri, con gli spazi che hanno a quelle latitudini ti chiede se quasi quasi se li può fare a piedi. Greg si disse impressionato di quella accoglienza, lo trattammo tutti come un figlio. Si innamorò, ricambiato, di una bellissima bionda chiamata carbonara, lui e Miller ne mangiavano a chili. In cambio ci dette un passaggio verso il rugby che conta. Direte, ci mancherebbe se uno con quel curriculum non riuscisse a fare la differenza in serie C. Eh, piano però. Perché la terza serie italiana di allora sarà stata sì di livello medio-basso, ma mica ci stava nessuno a perdere. C’erano veterani di mille battaglie, ragazzini che puntavano a salire la china il prima possibile, ragazzotti cattivi come la peste. E poi non è mai detto che un giocatore di quel livello voglia impegnarsi al massimo, tanti stranieri passavano per questi tornei con pochissima voglia di sudare.

Il giusto, toh.

Greg no, non era così, era uno che dava tutto, e i risultati si videro ben presto. Faceva la differenza, a volte in modo imbarazzante, e credo che se fossi stato un suo avversario avrei dato di matto se all’ennesimo pallone perso dai miei avessi dovuto ripartire da sessanta, settanta metri alle mie spalle. Perché quella era la sua gittata, solo leggermente smorzata in caso di vento contrario. E mica si limitava a calciare, Greg. No, dominava pure fisicamente, per referenze chiedere ad Antonio Altigieri, fratello del leggendario Anacleto, che non poteva che essere una prima linea. Chiedetegli se quel giorno ad Oriolo ha preso poi la targa del camion che aveva provato a fermare a mani nude. Quell’Altigieri lì non era forte come il fratellone, ma nelle categorie inferiori faceva paura, soprattutto quando montava. A tutta questa manna piovuta dal cielo aggiungete che nessuno di noi, ma proprio nessuno, se la sentiva di sfigurare davanti a quel campione. Non avremmo mai potuto arrivare ai suoi livelli, ma davanti a quell’esempio nessuno se la sentì di tirare indietro braccia e gambe.

A fine stagione Greg se ne andò a L’Aquila in serie A. D’altronde uno così, ad un certo punto, era anche giusto cercasse di alzare l’asticella a livelli a lui più consoni.

Eh ma è tornato.

Non da giocatore, ma è tornato.

Per il cinquantesimo anno della squadra ha evitato il placcaggio dell’aeroporto di Singapore e pure il raccordo anulare, per venire fin qui a salutarci. Certo, per complicazioni in aeroporto è arrivato in camicia a fiori e bermuda, cosa di non poco coraggio quando il calendario è fermo al 16 dicembre, ma non è voluto mancare dove, anche solo per qualche mese, è stato trattato come un figlio.

E dove la carbonara è più buona, perché la carbonara più buona è quella che mangi a casa tua.

Con le persone che ti vogliono bene al tuo fianco.

A giocare un rugby che, forse, dalle nostre parti non tornerà più. Ma che è stato bello vivere, anche se solo per un po’. Ora Greg fa il telecronista per le tv australiane, ma durante la Coppa del Modo del 2007, complice un calendario favorevole, si prese una giornata di riposo e venne a Rieti a farci una sorpresa.

Oh, ce l’avevano detto che sarebbe arrivato un rinforzo importante, ma mica potevamo immaginare una cosa del genere.